giovedì 3 settembre 2015

Corriere 3.9.15
Unioni civili? Ora le chiamano «formazioni sociali specifiche»
di Beppe Severgnini


«Civile» è un aggettivo associato a sostantivi molto diversi — dall’ingegneria al comportamento, dalla società al diritto — e non conquista spesso i titoli dei giornali. «Unione civile», invece, s’è dimostrato un accostamento esplosivo. Approdando in commissione al Senato, le unioni civili tra persone dello stesso sesso sono diventate «formazioni sociali specifiche», un termine grottesco e irritante. La prova che la politica italiana, quando non trova il coraggio, si nasconde dietro le parole.
Ma i nomi non ci devono fermare. Nel XXI secolo due persone maggiorenni, anche dello stesso sesso, devono poter contrarre un’unione per organizzare la loro vita in comune: è normale. Tanto normale da essere stato accettato da diciannove Paesi dell’Unione Europea. Tra questi, dieci sono andati oltre e hanno introdotto il matrimonio omosessuale; l’ultima in ordine di tempo, l’Irlanda cattolica.
L'Italia è l’unica tra i fondatori dell’Unione Europea a non contemplare né una cosa né l’altra. Al di fuori del matrimonio tradizionale, il limbo.
Non è solo un’ingiustizia: è una pigrizia e una stranezza. Non sembra così complicato. Si tratta di decidere i confini di questi nuovi accordi: quali diritti vanno riconosciuti ai contraenti? Il disegno di legge Cirinnà prevede il diritto di assistenza in ospedale, il diritto di successione nell’affitto di una casa, il mantenimento temporaneo dell’ex partner in difficoltà e la possibilità di fare «un accordo con cui i conviventi di fatto disciplinano i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune e fissano la comune residenza». Questioni ovvie: provate a chiedere in giro.
Le prese di posizione di alcuni rappresentanti politici — Lucio Malan ha paragonato le unioni civili all’avanzata del nazismo, Magdi Allam alla bomba atomica su Hiroshima — non sono soltanto imbarazzanti: dimostrano un estremismo che non appartiene all’elettorato di riferimento. Lo rivelano i sondaggi e le conversazioni. Una grossa fetta dell’opinione pubblica italiana appare bellicosa se si parla d’immigrazione; ma sembra pronta ad accettare un accordo di coppia diverso dal matrimonio. Si tratta — ripetiamo — di definirne i contorni. I parlamenti — fino a prova contraria — servono a questo.
Certo: alcune questioni appaiono spinose, come l’adozione dei figli dei partner da parte di coppie dello stesso sesso (per complicare ulteriormente le cose è in uso il termine inglese, stepchild adoption ). Ma non è necessario affrontarle tutte insieme. Si può andare per gradi: un’espressione che, a una politica votata allo scontro, può sembrare blasfema. Ma altra strada non c’è.
È così difficile ammetterlo? Per molti italiani accettare le novità, in questa materia, costa fatica. Non c’è nulla di cui vergognarsi: la fatica è ammirevole, a differenza della fuga. Sono necessarie pazienza, calma e intelligenza giuridica; e possono portare a soluzioni diverse in Paesi diversi, a seconda delle sensibilità e delle tradizioni.
Prendiamo il tema più delicato. Se decine di milioni di italiani sembrano disposti ad accettare le unioni civili — chiamiamole con il loro nome — non altrettanti si sentono pronti ad accettare il matrimonio tra persone dello stesso sesso. Ritengono sia giusto dare a un bambino una mamma e un papà. Deriderli, aggredirli o insultarli è controproducente. Noi non siamo americani. Per convincere gli italiani è sbagliato fare della questione una battaglia di diritti civili; meglio il ragionamento, la comprensione e l’esempio. L’Italia è una nazione empatica. Convince più una coppia omosessuale innamorata che un comitato aggressivo e sguaiato.
Il buon esempio dovrebbe venire dalla classe politica. Finalmente ha trovato il coraggio di affrontare la questione delle unioni civili; adesso trovi la calma necessaria. Probabilmente — com’è accaduto in altri passaggi difficili della coscienza nazionale — toccherà ai cittadini dimostrarsi più saggi. L’impressione, infatti, è che politici di ogni colore aspettino solo l’inizio della stagione dei talk-show per sbranarsi in pubblico. I media, come sempre, sono pronti ad allestire le gabbie. Ma non è così che una nazione diventa grande.
(ha collaborato Stefania Chiaie)