mercoledì 30 settembre 2015

Corriere 30.9.15
Tormenti mistici
se nella sofferenza dei santi riecheggiano i martiri politici
di Roberta Scorranese


«Vi abbiamo fatto tribolare». Con queste parole rivolte agli artisti riuniti nella Cappella Sistina, nel 1964, Paolo VI mise una pietra sopra secoli di dialettica difficile, quella che intreccia arte e sacro.
C’erano state le rigide committenze rinascimentali, simbolo di potere assoluto, poi i ritratti «su misura» dell’alta borghesia sei e settecentesca; gli scandali come quelli di Caravaggio che innestava temi «bassi» nei grandi dipinti destinati alle chiese; o di Guttuso, che con la sua Crocifissione del 1942 si guadagnò l’appellativo di pictor diabolicus : ci aveva messo una Maddalena seminuda e oggi il quadro troneggia in una delle sale più suggestive della mostra Bellezza divina tra Van Gogh, Chagall e Fontana , a Palazzo Strozzi, Firenze.
Una mostra che riesce in un racconto difficile: mostrare come l’arte ha rappresentato dio nell’epoca in cui (citando Nietzsche) «dio è morto». Opere di artisti italiani e stranieri dalla metà dell’Ottocento (dunque alla vigilia dell’ondata anticlericale nata dai moti indipendentisti) fino alla metà del Novecento, quando dio era forse ancora più difficile da raccontare perché come si fa a raccontare la fede quando Picasso aveva fatto vedere Guernica ?
«Non è stato facile — ammette Ludovica Sebregondi, una dei curatori —. Ma è stato un percorso fertile, fatto insieme anche all’Arcidiocesi di Firenze. Ci ha arricchiti dentro».
Si parte con i grandi dipinti ottocenteschi destinati agli altari. L’influenza francese (Géricault, ma anche Delacroix) si avverte nelle figure sofferenti, nei corpi piegati. C’è una bellissima Caduta di san Paolo , di Domenico Morelli, che spezza la ieraticità del santo e ci fa vedere un uomo nella polvere, agonizzante. «In molti dipinti simili riecheggiavano i martiri politici ottocenteschi», nota Sebregondi. Emerge qui il lato «politico» del sacro nell’arte moderna e contemporanea. Come potrebbe essere altrimenti, in un’epoca in cui il pensiero cristiano si intrecciava con la filosofia? Jacques Maritain, per esempio: influenzò più di un artista.
Si va avanti e nelle sale (ordinate per temi) si nota come la passione e la crocifissione di Cristo siano i temi più rappresentati. «Perché drammatici — dice la curatrice — dunque, raccontabili». Ecco un altro aspetto, quello della narrazione, proprio del nostro tempo. Lo dimostra il fatto che in mostra c’è una sola Resurrezione, quella di Emile Bernard, primi anni Venti. Con un Cristo nudo, che richiama l’iconografia dell’arte antica, quella che rappresentava il Battesimo di Cristo. Insomma, si fa fatica a rappresentare il lato metafisico della fede: l’uomo ora è al centro del mondo, adatta gli dèi alla propria quotidianità, come aveva intuito luminosamente Senofane nel V secolo a.C. — «Gli etiopi dicono che i loro dèi sono di pelle scura e hanno il naso camuso».
Ecco perché uno dei dipinti più suggestivi di questa accurata mostra è L’angelo dell’Annunciazione di Glyn W. Philpot, 1925: la prospettiva dell’evento evangelico fa sì che lo spettatore «entri» nei panni della Vergine e guardi l’angelo.
Il contrario di quello che Antonello da Messina aveva immaginato per la sua Annunciata di Palermo , nel 1476, dove lo spettatore passa dalla prospettiva dell’angelo. È come un cerchio che si chiude: l’arte come espressione devota della divinità si sposta a rappresentare il divino con gli occhi dell’uomo.
E la figura della Vergine è una di quelle più rappresentate. Il mistero numinoso racchiuso nell’annuncio, qui sconfina nel provocatorio (la Madonna «vezzosa» di Corcos, che aspetta l’angelo truccata e abbigliata bene) o nel simbolico (quella di Capogrossi è un’annunciazione tra due donne). Certo, in mostra spiccano «pezzi» importanti, come la Crocifissione bianca di Chagall (summa delle atrocità e delle meraviglie del Secolo Breve) o L’Angelus di Millet (straordinario esempio di trasposizione simbolica: un’ode alla semplicità contadina realistica di metà Ottocento diventata in seguito un’icona della preghiera).
Però il bello sta nel rintracciare nelle altre opere (che precedono cronologicamente la rottura finale ad opera dell’Informale) quel leggero imbarazzo, quell’incertezza nel raffigurare qualcosa che molti stanno mettendo in discussione.
Improbabili Cristi che attraversano stradine inglesi, bambini in ginocchio davanti a quadri sacri tagliati a metà, una ragazza che, nel fervore estatico della preghiera, non si accorge che una spallina della camicia da notte le svela quasi un seno (quel geniaccio di Vincenzo Vela). È una mostra bella perché rintraccia delle insicurezze nel gesto, nella pennellata, nella poesia. Quell’umanità che ci riavvicina alla bellezza. Divina.