mercoledì 30 settembre 2015

Corriere 30.9.15
Van Gogh: la sua Pietà quando rinunciò a salvare il mondo La parabola Conosce la Londra dickensiana , inizia a predicare ma è sopraffatto dalle emozioni. Solo negli ultimi tre anni di vita si abbandona al colore
Un lacerante impegno per gli ultimi. Poi scoprì la pittura
di Francesca Bonazzoli


Fino all’Ottocento, quasi tutti gli artisti realizzavano quadri di soggetto sacro, ma pochi brillavano per fervore religioso. Al contrario Van Gogh, che dipinse solo una Pietà, e per di più riprendendola da Delacroix, passò gran parte della sua breve vita a cercare di applicare il Vangelo, uscendone sconfitto, come tutti i radicali sinceri. Fu solo negli ultimi tre anni prima del suicidio che riversò quella stessa dedizione nella pittura.
Primogenito di un pastore protestante, Van Gogh non incanalò mai la vocazione in forme istituzionali e forse non ebbe mai nemmeno una vera chiamata divina quanto piuttosto una profonda capacità di immedesimarsi con gli ultimi; un bisogno doloroso di riscattarli e amarli. Il giovane Vincent, che a vent’anni fa esperienza di una Londra dickensiana dove si trasferisce per lavoro nel 1873, aspira niente meno che a salvare il mondo.
Quando due anni dopo la galleria Goupil lo trasferisce di nuovo destinandolo a Parigi, Vincent è ormai trasformato; trascura il lavoro e si chiude in casa a studiare la Bibbia con un amico. Licenziato, ritorna in Inghilterra, si guadagna da vivere facendo l’insegnante nei quartieri poverissimi dell’East End e a Whitechapel, e inizia a predicare accanto a un pastore metodista. Ma è troppo coinvolto e finisce per non riuscire a gestire le emozioni sollevate nei fedeli.
I genitori decidono che, se proprio è risoluto a fare il pastore, gli pagheranno gli studi di teologia ad Amsterdam. Ma naturalmente Vincent non passa gli esami di ammissione al seminario e torna sulla strada, a esercitare da libero battitore, dopo aver frequentato un corso per predicatori popolari. Poi parte per il Borinage, un centro minerario, desolato, grigio, miserevole, dove condivide la vita dei minatori.
Non ha nemmeno un letto. Si riposa su un pagliericcio gettato per terra e passa le giornate con i malati finché il padre non va a riprenderlo. È allora che comincia a disegnare ma, anche in questo caso, pensa di doverlo fare in modo onesto, sincero.
Che per lui vuol dire continuare ad occuparsi dei derelitti. Per questo si reca nella cittadina mineraria di Courrières a conoscere Jules Breton che lì vive e dipinge i minatori. Ma quando Vincent vede lo studio elegante e confortevole in cui il pittore pratica quella che gli si rivela una professione borghese e non una vocazione, come aveva creduto, torna indietro deluso. Segue le lezioni di un giovane pittore olandese, dipinge contadini, minatori e fa anche alcune traumatiche esperienze di innamoramento, l’ultima delle quali lo vede invischiato con Sien, una prostituta che Vincent si porta a casa ma non riesce a dirimere.
La fede nella pittura comincia a insinuarsi e a incrinare il desiderio di salvare il mondo. Ma per il passaggio definitivo all’arte è ancora necessario un lungo soggiorno a Parigi e soprattutto il trasferimento nel Sud della Francia nel 1888.
Qui la sua pittura si libera e finalmente si abbandona alla vocazione del colore, all’indagine di quell’«alta nota gialla» che diventa per Vincent una ricerca mistica, ora che ha deciso di donare la propria esistenza alla pittura. Lavora giorno e notte e, anche nell’anno in cui si ricovera all’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy, produce centocinquanta dipinti e cento disegni fra i quali le due versioni della Pietà ripresa da Delacroix, trattata come gli altri d’apres , ossia un esercizio su un maestro, perché Vincent si impegnava nella pittura come aveva fatto nella religione: attraverso il sacrificio e il duro lavoro.