mercoledì 30 settembre 2015

Corriere 30.9.15
Stampa e regime nell’Italia fascista
risponde Sergio Romano


Ho guardato con interesse la serie dei dvd dedicati alla Seconda guerra mondiale edita dal Corriere e introdotta da Paolo Mieli. In ogni dvd è inserito un piccolo fascicolo introduttivo con all’interno una pagina del Corriere . Mi ha colpito la completa adesione alle scelte politiche e militari del giornale al regime, con titoli retorici e roboanti tesi a enfatizzare gli eventi e le azioni dei tedeschi e dei fascisti, anche dopo il 1943. Com’è possibile che un giornale con la storia liberale del Corriere , capace addirittura con Albertini di condizionare l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, fosse così platealmente in accordo con le scelte politiche di Mussolini e dei tedeschi e non vedesse e fosse a conoscenza degli errori e orrori compiuti da quei regimi?
Antonio Merlo

Caro Merlo,
Non credo che lei debba esserne sorpreso. Il regime fascista non fu «totalitario», nonostante la parola sia stata coniata da Mussolini. Su alcune materie lasciava margini di commento e discussione difficilmente immaginabili nel Terzo Reich e nei regimi sovietici. Ma la politica internazionale era dominio riservato del capo del governo, un terreno in cui raramente ascoltava consigli. Aggiungo che Mussolini era nato giornalista, dedicava una buona parte della sua giornata alla lettura della stampa nazionale e internazionale, discuteva la preparazione del Popolo d’Italia ogni sera con la redazione milanese del giornale e se ne serviva spesso per pubblicare corsivi anonimi o recensioni di cui tutti intuivano la paternità. I giornali dovevano conformarsi alle direttive quotidiane del ministero della Cultura popolare, ma soprattutto sapevano di avere a Palazzo Venezia un «redattore-capo» molto autoritario che, per di più, conosceva il mestiere.
In tempo di guerra i margini di libertà dei giornali erano ulteriormente ridotti. La grande maggioranza degli italiani avrebbe preferito la non belligeranza, ma le regole civiche e morali degli Stati europei, non importa se democratici o autoritari, volevano allora che l’intero Paese facesse quadrato patriotticamente dietro la patria in armi. Molti intellettuali non avevano dimenticato il caso di Benedetto Croce alla vigilia della Grande guerra. Il filosofo napoletano non approvava l’intervento e aveva preso posizione fermamente contro l’ondata interventista che sommerse il Paese in quei mesi. Ma quando la guerra fu dichiarata, mise a tacere tutte le sue obiezioni e riserve. Nel 1940 questo clima culturale esisteva ancora e si rifletteva nei toni e negli accenti della stampa nazionale.
Durò grosso modo sino alla fine del 1942. Gli umori e i sentimenti della pubblica opinione cambiarono sotto la spinta di alcuni avvenimenti: i bombardamenti sulle città italiane, l’evoluzione della situazione militare nei Balcani, la battaglia di El Alamein e, qualche mese dopo, quella di Stalingrado. Divenne molto più difficile da allora, per i giornali, descrivere la guerra ai loro lettori. E fu ancora più difficile sopravvivere con qualche autorevolezza nei lunghi mesi dell’occupazione tedesca e della guerra civile. In ultima analisi, tuttavia, il ritorno alla normalità fu più facile per quei giornali, fra cui il Corriere , che non avevano completamente smarrito il sentimento della loro identità e delle loro tradizioni .