mercoledì 30 settembre 2015

Corriere 30.9.15
Ivan il Terribile , delitto e rimorso
Colto e feroce, primo sovrano a proclamarsi zar, uccise il figlio in un moto d’ira e rimase sconvolto
di Pietro Citati


Ivan IV nacque il 25 agosto 1530. Una notte, a dodici anni, si risvegliò di soprassalto nella sua stanza, scorgendo il metropolita inseguito da una turba di congiurati schiamazzanti. A tredici anni, ebbe la prima grande ispirazione della sua politica teatrale: riunì i cortigiani, li rimproverò aspramente, e comandò al custode dei suoi cani di far sbranare il principe Andrej Šyskis. A sedici anni, nel gennaio 1547, dichiarò di assumere il titolo di zar della Russia universa, luogotenente di Dio in quella Mosca che doveva essere considerata la «terza ed ultima Roma»: diventò così Ivan il Minaccioso ( Grozny ), e annunciò la condanna a morte di chi lo tradiva. Spaventato da un incendio che aveva devastato Mosca, implorò dal cielo il perdono per i suoi peccati, e si dichiarò pronto a perdonare ai principi e ai boiari.
Ivan parlò spesso della propria infanzia. Insieme al fratello, era stato allevato come uno straniero e un mendicante. «Quante privazioni — disse — soffrimmo nel vestire e nel nutrimento! Come enumerare tutte le sofferenze che sopportai nella giovinezza!» E ancora: «Io crebbi nell’abbandono, senza precetti paterni o materni, di quelli che dispensa un padre che ami i propri figli». Allora la Russia era devastata: non c’era il potere sovrano dello zar; ogni città aveva il suo governatore. I demòni, che dominavano la Russia, gettavano le proprie reti, violando tutti i giuramenti possibili. Ivan non vedeva, attorno a sé, che cani, e non udiva che latrati di cani arrabbiati. Dappertutto intuiva la figura nascosta dell’Anticristo.
In quel periodo Ivan aveva commesso moltissime malvagità: il Signore gli aveva mandato castighi per indurlo al pentimento — distruzione di chiese, profanazione di luoghi sacri, spargimento di sangue, alluvioni, imprigionamento di monaci e sacerdoti. Egli voleva vendicarsi dei suoi nemici: non ci riusciva; e non capiva che era il Signore a punirlo, non i malvagi che riportavano successi su di lui. Una doppia coscienza lo accompagnò per tutta la vita. La prima era che non esisteva potere che non fosse dato da Dio. «Chi si ribella al potere, si ribella — diceva — allo stesso comandamento divino». La seconda era che, malgrado le proprie colpe, egli possedeva quel potere: era quel potere; non un semplice principe o re, come quelli che governavano blandamente la Polonia e la Lituania, ma il vero autocrate, l’autentico zar divino della Russia universa.
Qualsiasi cosa dicesse, scrivesse o facesse, Ivan sentiva scorrere nelle sue vene una tradizione che risaliva a Mosè, ai profeti dell’Antico Testamento, a Cesare Augusto e all’imperatore di Bisanzio, e di lì, in Russia, scendeva al grande sovrano Vladimir, a Vladimir Monomach, Aleksandr Nevskij, al suo avo, Ivan, e a suo padre, il grande principe Vasilij, «di beata memoria, e infine a noi, gran sovrano e gran principe, umile portatore dello scettro della potenza russa». Non c’era lacuna, né interruzione, in questa vivente catena di potenti della terra.
Non era una tradizione di bontà, longanimità e tolleranza. Ivan ricordava il più grande degli imperatori, «splendente di devozione, re della verità cristiana, che aveva riunito in se stesso il sacerdozio e il regno», Costantino il grande: per il bene dello Stato, aveva ucciso il proprio figlio. Come Costantino, Ivan confidava nell’Altissimo e sperava nel potere della santa e vivificante croce. Era un eletto: derivava il proprio potere dal regno dei cieli, come portatore della «sovranità cristiana autocratica, veramente ortodossa». Gli era lecito agire con la paura, col divieto e col freno: nessuno poteva imputargli di usare, verso i nemici, la pena capitale, perché laddove i sudditi non obbediscono al sovrano, non cessano mai le guerre fratricide. «È bello per i sudditi — diceva — essere soggetti alla volontà di un sovrano: là dove sopra di essi non c’è volontà sovrana, essi vacillano come ubriachi, e non conoscono alcun bene». «Puniamo — aggiungeva — il male con il male; e ciò non perché abbiamo il desiderio di punire, ma per necessità, a causa della malvagità dei nostri sudditi». Quindi egli recitava l’ira, la collera, lo scherno e la simulazione, per rappresentare nella sua integrità la figura del Signore assoluto.
Ivan difendeva la purezza della propria cultura teologica, esaltando «Iddio nostro trino, che fu prima di questo tempo, ed è ora Padre e Figlio e Spirito Santo, che non ha né inizio né fine, per lui viviamo e ci muoviamo, in lui gli imperatori regnano e i sovrani scrivono leggi». Insisteva su un fatto per lui essenziale: per principio, il potere dello zar è differente da ogni sacerdozio, poiché lo zar non è tenuto ad osservare il precetto evangelico di porgere la propria guancia: questo, per lui, sarebbe disonorevole. «Come può lo zar dirigere lo Stato — diceva — se permette che la sua persona venga vilipesa?». «Cercate dunque di intendere la differenza tra il nostro regno e quello sacerdotale».
Rispettava e venerava i monaci. «Non sono degno neppure di chiamarmi vostro fratello: consideratemi, secondo la legge evangelica, un vostro uomo di fatica». Andò nel monastero di San Kirill di Beloozero: vi trovò una fuggevole schiarita tra pensieri tenebrosi e cupi, «quasi un’alba foriera di luce divina». Quando udì descrivere quella vita santa, la sua «anima dannata» e il suo «cuore perverso» si rallegrarono, poiché aveva trovato una «divina briglia» alla sua incontinenza di rifugio e salvezza.
Presto Ivan il Terribile assunse una figura sublime, che veniva ripetuta nelle immagini e nelle stampe. Aveva una grossa testa col berretto calcato fino alle orecchie: grandi occhi dall’espressione incollerita sotto palpebre spioventi, baffi egualmente spioventi, barba bipartita: una possente statura, una lunghissima barba, un lungo caffettano; lo sguardo si affacciava da sotto le ciglia aggrottate con un’espressione minacciosa, gelida e inquisitoria, mentre il corpo era irrigidito in una specie di attesa felina.
Ivan il Terribile aveva una grande cultura, per i suoi tempi del tutto insolita in Russia. Fece tradure le Storie di Tito Livio, le Vite di Cesari di Svetonio, il Codice di Giustiniano. Citava a memoria profezie dell’Antico Testamento e brani di annalisti russi: conosceva Giuseppe Flavio, e i libri che riceveva da Costantinopoli (le opere mistiche di Palamas), da Roma, dall’Inghilterra, dalla Lituania e dalla Polonia. Fece stampare la prima traduzione della Bibbia nei paesi slavi.
Secondo la testimonianza di un diplomatico inglese, egli colpiva gli ascoltatori russi e stranieri «per la sua grande eloquenza». Aveva uno stile ardito, che mescolava la retorica tradizionale dell’antica Russia ed espressioni volgari. Qualche volta, i suoi scritti erano soltanto, come disse un nemico, «magniloquenti e multisonanti»: più spesso esprimevano una indomabile ira, collera, scherno velenoso, amarezza irridente, furore crudele. Sapeva di non appartenere alla vera e propria letteratura; e insieme aveva una coscienza letteraria di imperiosa autorevolezza.
Lettere e Testamento di Ivan il Terribile (a cura di Dmitrij S. Lichacev e Jakov S. Lur’e, traduzione di Maria Olsùfieva, Longanesi) stanno sul confine tra la letteratura e il documento ufficiale, tra la lettera privata e l’atto legislativo, infrangendo qualsiasi tradizione e genere letterario. Il suo discorso scorre con un’assoluta libertà, con una sempre rinnovata flessibilità, e furibonda mescolanza di stili. Ivan comincia la sua lettera con giri di frase libreschi, slavo-ecclesiastici, ma presto trova il tono di una spontanea conversazione, appassionante ed ironica. Straordinario è l’ostentato e beffardo tono del Testamento: «Io, gran peccatore, indegno servo di Dio, Ivan, scrivo questa confessione in pieno possesso della ragione, pure essendo povero di spirito: infatti per la pochezza del mio senno non ho potuto avvicinarmi alla mensa dove viene dispensato il nutrimento delle parole angeliche. La mente mi si è coperta di croste, il corpo si è spossato, lo spirito soffre, le piaghe corporee e spirituali si sono moltiplicate, e non v’è nulla che le possa guarire. Aspettai che qualcuno si dolesse con me, ma non vi è nessuno. Non trovo nessuno che mi consoli».
Fin da ragazzo, aveva commesso nefandezze. La sua vita fu posseduta da un prorompente bisogno di dissolutezza e da una possente fantasia erotico-sadica, che lo portava a violare, a stuprare, a rendere servi, a uccidere, a distruggere intere città: scatenando le sue guardie del corpo, trecento eletti di una crudeltà efferata. Poi subentravano il rimorso e la paura di Dio: faceva indossare vesti monastiche ai servi più crudeli, sia per pentimento che per ostentazione. Ordinava di straziare i corpi delle vittime nella maniera più raffinata, arrostendoli con il fuoco: di imprigionarli con corde strette alle mani e ai piedi; di trascinarli velocemente legati alle slitte, precipitandoli nel fiume. Intanto le sue guardie del corpo, montate su piccoli battelli, armate di lance e di spiedi, andavano qua e là sul fiume, trapassando i cadaveri.
Col passare degli anni, la crudeltà di Ivan il Terribile si scatenò e divenne furiosa. Nel 1581, uccise Ivan, il figlio maggiore ed erede designato, sfondandogli le tempie col famoso puntale ferrato, suo scettro abituale. Poi tutto precipitò. Al posto del Terribile, rimase un povero vecchio emaciato, con lo sguardo febbrile ed inebetito. Piangeva a lungo. Spesso saltava la notte dal letto, graffiando tutt’intorno le pareti. Non portò più la corona né nessun altro ornamento principesco. Morì il 18 marzo 1584, durante una partita a scacchi. Corsero voci di strangolamento e di avvelenamento.