Corriere 28.9.15
Non dimenticare la nostra civiltà
di Susanna Tamaro
Quest’esodo biblico di migranti appare in primo luogo come un’improvvisa e imprevista iniezione di vitalità. Ma il loro arrivo sia accompagnato dal rispetto delle nostre regole e del nostro essere.
Guardando le immagini delle torme di bambini che marciano per settimane insieme ai loro genitori nelle condizioni più estreme, mi sono resa visivamente conto della fragilità in cui versa la nostra società che spinge ormai i suoi figli in carrozzina fino quasi alle soglie dell’eta scolare e alla stessa epoca, in sempre più casi, li disabitua all’uso del pannolino.
Sono sempre stata colpita da questo prolungamento della prima infanzia, da questa impossibilità di marcare i tempi e di crescere facendo continuamente procrastinare l’ingresso nell’età adulta. Fin dai primi istanti, i nostri piccoli vivono sotto la costante cappa di controllo degli adulti che tendono a proteggerli in maniera ossessiva da qualsiasi cosa possa turbarli o ferirli. Il frutto di tutto ciò è una generazione di bambini fragili o fin troppo sicuri, bambini già immersi nella foschia della depressione o vittime di una sovraeccitazione difficile da controllare senza l’aiuto dei farmaci.
Di questo disagio, di questo straniamento, nella nostra società prostrata davanti all’altare dell’esasperato narcisismo si parla poco, perché parlarne vorrebbe dire affrontare altri livelli di discorso, prima tra tutti quello della distruzione sistematica di tutti i valori che hanno permesso al nostro Paese — e agli altri Paesi europei — di avere radici profonde e di produrre una cultura ammirata ed esportata in tutto il mondo.
Così quest’esodo biblico — che tanto, e per tante ragioni, ci turba — appare in primo luogo come un’improvvisa e imprevista iniezione di vitalità. Questi bambini che marciano silenziosi sono abituati a sopravvivere, ad affrontare il disagio, la fatica e la morte, trovando sempre comunque la forza di andare avanti, sorretti dai loro genitori. Se un giorno nasceranno nuovamente grandi scrittori, ho pensato, verranno fuori da lì, da questi bambini in marcia che tutto hanno visto e tutto hanno provato, e non certo da qualche raffinato ed esangue master di scrittura creativa.
Quando un’arnia di api è debole, spesso arrivano api più forti a saccheggiarla, così mi pare che questa affluenza straordinaria di persone, al di là delle ragioni politiche ed economiche, abbia anche un’altra valenza, direi quasi energetica. Quando una società diventa debole, confusa, capace solo di seguire i fantasmi della sua mente non più calibrata sulla concretezza della realtà, attira direi quasi spontaneamente l’energia di mondi più giovani, più forti, capaci di emergere per la compattezza e la profondità delle loro radici. Popoli affamati di vita contro popoli che della vita non sanno più che cosa farsene. Popoli che conoscono la ferocia della sopravvivenza, la durezza di condizioni comunque sempre estreme, contro popoli per lo più assopiti in una dimensione larvale, capaci di risollevarsi dal sonno soltanto per esaltare l’alimentazioni crudista o compiere battaglie epocali come quella per l’abolizione del maschile e femminile, la misera fola culturale che continua a infestare la nostra società.
Abolire ogni differenza, ecco il ruggito terminale del nichilismo: né maschio né femmina, né giorno né notte, né bene né male, né vita né morte. La polarità che da sempre regge il mondo — e che con il suo movimento dinamico crea tutto ciò che esiste — viene finalmente annullata, le sue catene che per troppo tempo ci hanno tenuti schiavi, facendoci recitare una parte per cui non ci sentivamo più adatti, alla fine sono state divelte. Nessun condizionamento deve tarpare le ali della nostra libertà.
Gli estremamente liberi allora come si potranno relazionare con gli estremamente vitali? Quali nuovi equilibri si formeranno o, piuttosto, come si farà a mantenere un equilibrio positivo per entrambi? Lo sforzo di generosità scaturito in queste settimane da parte di normali cittadini è un bellissimo segno di risveglio ma, quando l’emergenza sarà finita, in che modo riusciranno a relazionarsi queste realtà così diverse e così storicamente lontane? Come sarà possibile mantenere un equilibrio positivo per entrambe le culture?
Una scuola in Germania, che si trova nelle vicinanze di un centro per rifugiati, ha chiesto alle ragazze di vestirsi in modo più acconcio per non urtare la sensibilità degli ospiti. L’ospitalità è sacra — e quando si tratta di ospitare persone in fuga da guerre e persecuzioni è doppiamente sacra — però, nella sua sacralità, ha delle precise regole che devono essere rispettate da entrambe le parti. E oltre alle regole, richiede un sentimento fondamentale che è quello della gratitudine. Senza questi due capisaldi — rispetto e gratitudine — con molta facilità si trasforma in qualcos’altro.
Un mondo fluttuante come il nostro, che ha rinunciato alle sue radici più profonde, timoroso e pavido nell’affermare i propri valori, in che modo potrà rapportarsi con persone dall’identità così forte? Basterà fare un girotondo inneggiando alla fraternità, convinti che l’importante sia volersi bene e che il bene che noi vogliamo sia anche il bene che desiderano gli altri per noi? Oppure, evaporata l’ebbrezza dei buoni sentimenti, le cose non rischieranno di essere un po’ più complicate?
I processi di integrazione richiedono sempre tempi molto lunghi e la via preferenziale per ottenerli sono i bambini, quando viene loro permesso di inserirsi in un contesto positivo. Ma questo purtroppo non sempre avviene perché, per istinto, gli esseri umani amano stare con chi gli è più simile e diffidano di chi è diverso. Lo spauracchio del razzismo ci impedisce spesso di vedere questa realtà, i gruppi etnici tendono a proteggersi con una struttura chiusa e difficilmente si aprono verso ciò che viene percepito come estraneo. Conosco persone che da più di vent’anni vivono in Italia e non hanno imparato più di duecento parole della nostra lingua.
Cosa succederà poi di tutti quei giovani maschi soli, provenienti dall’Africa subsahariana o da altri miseri paesi, che bighellonano nella maggior parte dei giardinetti pubblici italiani, in attesa dei lunghissimi processi di valutazione della richiesta di asilo? Con quali speranze, con quali orizzonti vengono da noi persone che non fuggono da realtà in guerra ma soltanto dalla miseria? Non rischiano di innescare situazioni esplosive? Un Paese come il nostro, in cui le famiglie, in buona parte dei casi non arrivano a fine mese, non può vedere di buon occhio questi ragazzi che vagano senza meta per le nostre strade e che vengono mantenuti dal denaro pubblico. E chi dà loro i soldi per affrontare un viaggio così costoso, quando nei loro Paesi il reddito annuo si aggira intorno ai duecento euro? Con la stessa cifra non avrebbero potuto iniziare una qualsiasi attività, anche modesta, dalle loro parti, contribuendo così al cambiamento della loro terra? Che peso hanno nell’immediato, e che peso avranno nel futuro queste presenze? Saranno una risorsa o diventeranno un elemento di disintegrazione?
Molto dipenderà credo dal nostro comportamento. Dal nostro saper essere veri ospiti, capaci di stabilire e imporre le regole del rispetto e della reciprocità. Se invece ci ridurremo nello stato larvale, balbettando incerti davanti ad ogni richiesta, arretrando e cedendo ogni giorno, convinti in fondo che nella nostra civiltà non ci sia granché da difendere, non occorre avere la sfera da veggenti per renderci conto che il paese in cui vivranno i nostri nipoti sarà molto diverso da quello che fino a qui abbiamo conosciuto.