domenica 27 settembre 2015

Corriere 27.9.15
L’ambigua ricerca delle élite
di Ernesto Galli della Loggia


La corsa dei parlamentari di destra e di centro ad abbandonare i loro schieramenti per andare a sinistra riproduce più o meno quanto sta avvenendo nella società italiana. È ormai da qualche tempo, infatti, che salvo rare eccezioni i vertici che contano, gli organismi significativi, tutte le voci influenti, vanno orientandosi in una sola direzione: quella di Matteo Renzi, o, se si può dir così, del renzismo. Non già verso il Pd, tanto meno verso la sinistra: verso il presidente del Consiglio.
Si tratta di una rilevante differenza rispetto al passato più recente; anche se in qualche modo essa segna il ritorno a un modello antico della nostra storia nazionale.
Dagli anni Ottanta in poi, un generico orientamento verso il centrosinistra, infatti, è stato sempre più largamente maggioritario nell’élite italiana. Il fenomeno era già evidentissimo nell’ultima fase della Prima Repubblica, sicché, divenuto il Pd l’erede di fatto di tutto quel sistema ideologico-partitico, nulla di più logico che fosse poi esso ad attrarre le maggiori simpatie. Simpatie che tuttavia si sono trovate a dover fare regolarmente i conti con le incertezze ideologiche e le nebulosità programmatiche di una base — esemplarmente rappresentata da un leader come Massimo D’Alema — immobilizzata tra nostalgie della «Ditta» e velleità di un mai meglio precisato «aggiornamento».
Dall’altro canto, specie dopo la comparsa di Berlusconi, l’affiliazione al centrodestra dell’élite italiana non è stata certo insignificante.
Ma dal punto di vista dell’élite, alquanto circoscritta, direi: in pratica limitata agli ambienti economici e degli affari coinvolti nella sfera degli appalti e dei contratti pubblici, alle pur vaste cerchie interessate alle migliaia di nomine istituzionali, nonché a un certo mondo alto-burocratico. Per il resto sporadici fenomeni sostanzialmente di opportunismo, ma nulla di più.
Renzi ha rotto questo schema. Mandato in soffitta il vecchio Pd e alzando l’insegna «Le cose da fare in questo Paese non sono né di destra né di sinistra, sono da fare e basta», egli sta rapidamente riunendo intorno alla propria persona tutta l’Italia del potere, tutta l’Italia che conta, proveniente dall’una o dall’altra precedente affiliazione.
È il ritorno all’antico di cui dicevo sopra. La grande stabilizzazione politica italiana ha sempre funzionato in questo modo, infatti: intorno a un uomo, non intorno a un partito. E in primo luogo agglutinando intorno a quella persona la grande maggioranza dell’élite. Fu così fin dall’inizio con Cavour, poi con Crispi e Giolitti. E come il potere italiano fu assai più che fascista mussoliniano, così in seguito non fu certo democristiano bensì degasperiano, per concedere poi la propria fiducia ai due soli veri leader che la Dc ebbe dopo di lui, Fanfani e Andreotti. Ci provò a suo tempo anche Craxi, riuscendovi solo pochissimo e per brevissimo tempo. Berlusconi non c’ha neppure provato.
È un fatto, mi pare, che nella nostra storia la classe dirigente, pur intrattenendo per antica tradizione un fortissimo rapporto con la politica, si è mostrata nel complesso quasi per nulla interessata, invece, a un qualsiasi rapporto con i partiti. Pronta ad appoggiarne i capi, ma anche a rapidamente abbandonarli. Forse neppure la «Repubblica dei partiti» è mai stata realmente la Repubblica delle élite italiane: le quali infatti l’hanno lasciata colare a picco senza muovere un dito. Tutto sta a indicare, insomma, che specialmente per le classi dirigenti di questo Paese è stato sempre più facile trovare un raccordo stabile e fisiologico con la politica rappresentata da una persona piuttosto che da un partito.
«Ma che male c’è?», si obietta; «Se le cose da fare non sono né di destra né di sinistra, non basta che ci sia una persona che le voglia e le sappia fare?». Questa obiezione esprime uno stato d’animo diffuso, dovuto all’immobilismo che da anni soffoca l’Italia, alla sensazione che in questo Paese da anni nulla si muova, e che tutto ciò ci stia uccidendo. È lo stato d’animo che gioca a favore dell’attivismo del nostro giovane presidente del Consiglio, giustificando il consenso personale che egli raccoglie. Ma le cose non sono così semplici come possono apparire.
Innanzi tutto, perché anche ammesso che le cose da fare non abbiano alcun colore partitico particolare, è difficile immaginare, però, che un tal colore non ce l’abbia neppure il modo di farle. Che per esempio vi sia un solo e unico modo di mettere o non mettere una tassa sulla casa o di decidere un piano di investimenti pubblici, che una riforma scolastica o una politica circa l’immigrazione concepite dalla destra siano eguali a quelle concepite dalla sinistra. Le idee, insomma, fanno pur sempre la differenza. E quando si dice idee, si dice contenuti concreti, scale di valori, priorità, obiettivi: tutte cose che fino a prova contraria non solo in politica ma nella vita di una collettività contano. E che dividono, che giustamente, fisiologicamente, dividono. Si chiama democrazia: nella quale, per l’appunto, contano sì gli uomini, conta sì la capacità di comando e di realizzazione di un leader, ma dovrebbero necessariamente contare anche le idee.
Nel formarsi di un vasto seguito personale intorno a un capo non c’è nulla di male. Proprio la democrazia ha bisogno di leadership forti, e ne ha bisogno in modo particolare oggi l’Italia. È piuttosto la rapidità e l’unanimismo con cui un tal seguito si sta formando intorno a Renzi nelle aule del Parlamento e fuori, che suscita qualche perplessità. Se nel primo caso si tratta palesemente della non molto nobile speranza di salire sul carro del vincitore, e al momento giusto di trovare un posticino nelle liste elettorali, nel secondo sono soprattutto le élite del potere italiano che cercano un’interlocuzione politica autorevole e utile, il potere di governo di segno forte, con cui mettersi in sintonia, dal quale ispirarsi e da ispirare. Ma con quale obiettivo, per quale fine? E vogliono davvero tutte la medesima cosa e nel medesimo modo?
Nell’assenza di qualunque risposta, resta l’impressione di una sostanziale indifferenza rispetto ai contenuti: sulla quale l’evanescenza di ogni visione generale in cui ormai vive l’intero Paese, a cominciare proprio dalla politica, non manca di gettare una luce inevitabilmente ambigua.