sabato 26 settembre 2015

Corriere 25.9.15
Dioniso si nasconde sotto i funghi
Peter Handke va oltre l’ozio e sposa l’ebbrezza nel folto dei boschi. Una lezione di vita(lità)
di Pietro Citati


La casa editrice Guanda ha pubblicato recentemente due bellissimi libri di Peter Handke: Pomeriggio di uno scrittore (traduzione di Giovanna Agabio, pagine 88, e 6,50) e Saggio sul cercatore di funghi (traduzione di Alessandra Iadicicco, pagine 172, e 15). In entrambi i libri è essenziale la crisi della parola. Una volta, quasi per un anno, Handke aveva immaginato di aver perso completamente il linguaggio: così, da allora, ogni frase che scriveva diventava, per lui, un avvenimento. Soffriva d’angoscia: fra tutti coloro che esercitavano la sua professione, era l’unico ad aver paura di scrivere. «Non oltrepassare la soglia!», diceva. Era come colpito dal divieto di scrivere.
Pensava che, nel suo intimo, fosse esistito qualcosa di simile a un testo primigenio, e che questo testo continuasse ad esistere e a svilupparsi molto lentamente. Egli allargava i suoi sensi: restava seduto al buio, senza lambiccarsi il cervello o pensare al dopo: soltanto riposare, chiudere gli occhi, non ascoltare; nient’altro che inspirare ed espirare. Si limitava a rimanere tranquillo nel silenzio, ricordando, finché impercettibilmente il ricordo precipitava in un sogno egualmente tranquillo. Nel sogno il mondo non esisteva più, e gli pareva che lui, nella sua stanza, fosse l’ultimo dei sopravvissuti.
Nei periodi d’ozio, Peter Handke andava a passeggiare nel centro della città. Quando invece era assorbito dal lavoro letterario, si avviava ai margini della città, nei boschi. Non ai margini: restava là, dando le spalle agli alberi; davanti a lui nient’altro che la campagna vuota. Erano boschi di abeti rossi, con un mantello di aghi fittissimo: questi alberi crescevano gli uni vicino agli altri, con i loro rami e rametti intrecciati e ingarbugliati; man mano che si penetrava in quell’intrico, diventava sempre più buio, e non si riusciva né a vedere il singolo albero né l’intero bosco. Le betulle frullavano, i faggi stormivano, i frassini sussurravano, le querce frusciavano. A volte, Handke si sentiva un eletto: a volte gli sembrava che lo stormire e il frusciare degli alberi fosse un bisbiglio rivolto contro di lui, un chiacchiericcio ostile, foriero di sventure.
Camminava come un cacciatore di tesori, cercando funghi, e credendo di avvertire in se stesso il potere magico di scoprirli. Vedeva un bagliore. Sotto l’intrico grigio opaco del legno decomposto, risplendeva una luce da stanza del tesoro. Erano mucchi di gallinacci, che balenavano e aggredivano gli occhi, accecavano letteralmente il primo sguardo proteso nell’oscurità. Scoprì un intero paese di funghi gialli, che si estendeva per ore e ore, inesauribile come un continente. Giallo, giallo e altro giallo ancora, che continuava a perdita di sguardi davanti al sognatore. Quel giallo incessante non si estendeva «davanti» ai suoi occhi — saltava dentro di essi, vi si tuffava, vagava come un fuoco fatuo, sia sotto le mani costrette a raccogliere senza sosta sia dentro di lui, finché in quel guizzo balenava un fiammeggiare di puro giallo.
Il culmine del paese dei funghi era il fungo porcino: aveva sempre un bell’aspetto; il cappello luccicava ancora per l’umidità; mentre la carne del gambo era bianca, come se fosse appena spuntata dalle profondità della terra. La maggior parte, anzi quasi tutti i suoi tesori, li aveva trovati di volta in volta vicino al ciglio del sentiero: mai lontano da esso. Parevano famiglie che da un anno all’altro, o dall’inverno alla primavera, spuntassero in modo sotterraneo: seguivano il corso dell’acqua, rifuggivano dai venti, affioravano a grande distanza, moltiplicandosi nell’aria e nella luce.
Erano gli ultimi esemplari di flora rimasti sulla terra che non ammettessero di essere coltivati, o civilizzati o addomesticati: gli unici che crescessero selvaggi, impassibili di fronte a qualsiasi intromissione umana. La caccia dei funghi risvegliava, nei cercatori, una specie di ebbrezza dionisiaca. Bisognava cercarli da soli: al massimo, si poteva portare con sé dei bambini. Senza accorgersene, il cacciatore di funghi cominciava a dimenticarsi della moglie e della famiglia. Tutto l’universo si riduceva, a poco a poco, all’attenzione per i funghi. Il cercatore conosceva in sé una condizione d’estasi. Si sentiva l’unico, legittimo cacciatore di tesori: l’unico sovrano.