Corriere 22.9.15
Lezione di realismo da Atene
di Paolo Mieli
L’ultimo giorno dell’estate 2015 passerà alla storia come il dì del trionfo di Alexis Tsipras, certo. Sul piano continentale, però, presto si capirà che le elezioni greche di domenica scorsa sono state vinte da Angela Merkel. È stata lei che ai primi di luglio ha preso per mano il leader di Syriza inducendolo a impiegare il successo conseguito al referendum in qualcosa di potenzialmente virtuoso per la Grecia e per l’Europa: l’accettazione delle dure condizioni per il terzo prestito europeo. Per ottenere l’assenso di Tsipras, la cancelliera tedesca ha dovuto convincere il suo ministro mastino Wolfgang Schäuble (che a leggere le memorie dell’ex segretario al Tesoro statunitense Tim Geithner voleva buttare Atene fuori dall’euro già dal 2012) e persino il vicecancelliere socialdemocratico Sigmar Gabriel che si era pronunciato per la cacciata dei greci, sia pure «solo» per un quinquennio. Ma ad essere decisiva, poco più di due mesi fa, è stata la velocità con la quale il capo del governo di Atene si è liberato del suo ministro Yanis Varoufakis e ha ratificato quella che, non senza malanimo, lo stesso Varoufakis oggi definisce la «resa del 13 luglio».
La storia è piena di leader di sinistra che, giunti al potere, si rendono conto di non poter mantenere le promesse elettorali e si vedono costretti a scaricare i deputati irriducibili prima di affrontare con la necessaria energia i problemi che si pongono. Con la necessaria energia e con modalità che quasi sempre non hanno alternative.
Il caso più celebre — fatte le debite differenze con la Grecia — fu quello di François Mitterrand che vinse le elezioni presidenziali francesi del 1981, imbarcò nel governo presieduto da Pierre Mauroy i comunisti di Georges Marchais, suoi alleati, e fu costretto a contrattare con loro un gigantesco piano che prevedeva tra l’altro la nazionalizzazione di ben 729 aziende (contro le 1.400 pretese dal partito della falce e martello). Per qualche tempo Mitterrand vagheggiò addirittura di uscire dal Sistema monetario europeo. Nel marzo del 1983, il Presidente francese cambiò radicalmente il programma e ne adottò uno più consono alla bisogna; nel luglio del 1984 estromise dal governo i comunisti (reduci da una sconfitta alle elezioni europee e perciò felici di essersi liberati dell’ingrato fardello) e contemporaneamente cambiò anche il primo ministro Mauroy con il più docile Laurent Fabius. Troppo tardi. Alle elezioni politiche del 1986 il Partito socialista fu sconfitto e da quel momento Mitterrand dovette accettare la coabitazione con un primo ministro gaullista, Jacques Chirac che nove anni dopo gli sarebbe succeduto all’Eliseo. Mitterrand ci ha messo dai due ai tre anni prima di abbandonare l’ambizioso programma del 1981 e passare a fare i conti con la realtà. Il saldo di questo ritardo lo ha pagato la sinistra francese con una terribile batosta elettorale. Tsipras ci ha messo sei mesi ed è stato compensato con una clamorosa vittoria da un elettorato, il suo, che avrebbe avuto molte opportunità di scelte alternative e invece ha puntato su di lui.
A questo punto del discorso giunge puntualmente un’obiezione a cui ormai siamo abituati: vogliono dire queste considerazioni che un leader «di sinistra» può solo rassegnarsi a fare politiche «di destra»? No. Vogliono dire che in una stagione di crisi, se non ci si vuole abbandonare a una deriva sudamericana, le cose da fare sono pressoché segnate e alla sinistra tocca il compito enorme di farle e di difendere ad un tempo i diritti dei più deboli. Angela Merkel nel luglio scorso ha indicato a Tsipras la via per far riaprire le banche e per pagare gli stipendi pubblici a fronte dell’ impegno a osservare le regole come tutti gli altri paesi europei. E il capo di Syriza — il quale sa di essere alla guida di un Paese in cui la sua pari grado del Pasok, la cinquantenne Fofi Gennimata, nel 2014 ha potuto mettersi in pensione (anche se adesso, da parlamentare, ha sospeso il ritiro dell’assegno) — ha preso l’impegno di stare ai patti imposti dal memorandum europeo. Del resto hanno scritto sul Wall Street Journal Jeremy Bulow e Kenneth Rogoff: «Rigettare le richieste di maggiore austerità da parte dei creditori suona bene; ma chi esattamente pagherebbe la minore austerità?». Nell’Unione europea ci sono dodici stati più poveri della Grecia, nell’eurozona sono sei su diciannove: perché un operaio di uno di questi Paesi dovrebbe lavorare un’ora in più per pagare la pensione alla giovane signora Gennimata?
Passato il mese di agosto, adesso anche Varoufakis riconosce alla Merkel, dopo l’atteggiamento che lei ha preso sull’immigrazione, «un incredibile livello di leadership». All’ex ministro greco dell’Economia ancora bruciano le sarcastiche parole con cui lo accolse Schäuble al loro primo incontro: «Per un politico come me è sempre un onore incontrare un accademico, un professore come lei». Gli risponde ora con una punta di veleno: «Mi piacerebbe che Berlino chiedesse alle sue imprese di stare lontane dai saldi greci». Intende dire che Schäuble, quantomeno per questioni di stile, dovrebbe dire apertamente ai tedeschi di astenersi dal prender parte a salvataggi e privatizzazioni del Paese che Tsipras dovrà rimettere in carreggiata. E, per rendere a Varoufakis l’onore delle armi, va detto che si tratta di una considerazione inappuntabile.