mercoledì 16 settembre 2015

Corriere 16.9.15
Tutti i segreti di un negoziato partito male
Il conflitto diventa istituzionale E c’è chi evoca la «desistenza»
Le scelte dopo i silenzi di Grasso. Nei conti pd le possibili assenze tra i forzisti
di Francesco Verderami


Non si erano mai viste una crisi politica e una crisi istituzionale messe insieme. Ma la contemporaneità dello scontro sulle riforme nella maggioranza e il conflitto tra Palazzo Chigi e la presidenza del Senato danno l’idea della crisi del sistema, e di quanto sia traumatico il travaglio al termine del quale si capirà se la Seconda Repubblica avrà dato vita alla Terza.
Da Renzi a Bersani, da Berlusconi ad Alfano, da Grasso a Grasso, in questa fase ognuno scommette sulle proprie forze e sulle proprie prerogative. Anche i peones, perché al Senato ogni voto pesa. Era chiaro che si sarebbe arrivati allo show down, ed è avvenuto ieri: dentro il Pd, dove la minoranza ha lasciato il tavolo di mediazione sulle riforme in segno di ostilità verso il suo leader e premier; e dentro Ncd, dove Quagliariello ha annunciato una proposta di modifica dell’Italicum in segno di ostilità verso il suo leader e verso il premier. Come in una partita a scacchi, nel gioco d’apertura, i pezzi si stavano posizionando sulla scacchiera seguendo i canoni e lasciando inevasa la solita domanda: Renzi li ha i numeri al Senato?
Senonché Renzi ha introdotto una variante, e sfruttando la mossa della minoranza interna, ha deciso di portare subito in Aula le riforme, «perché — visto come si stanno mettendo le cose — se passassimo prima in Commissione non finiremmo mai in Aula per il 15 di ottobre», giorno in cui al Senato dovrebbe iniziare la sessione di bilancio. Così è scoppiato il conflitto istituzionale tra Palazzo Chigi e Palazzo Madama. La mossa del governo è figlia di una mancata intesa sui contenuti, dunque è responsabilità politica. Ma se l’esecutivo arriva a scaricare la responsabilità sulla presidenza del Senato, c’è un motivo: è stato il buio sulle procedure — ecco la tesi — a non consentire lo svolgimento del negoziato, siccome Grasso non ha voluto far sapere la sua decisione sull’ammissibilità o meno degli emendamenti all’articolo due della riforma, che è il vero nodo della vertenza.
Raccontano che ripetutamente la Finocchiaro avesse chiesto al presidente del Senato di «stabilire insieme» i criteri, in base ai quali si sarebbe deciso quali proposte di modifica far votare: «Così li applicherei già in commissione», la Affari costituzionali, che lei guida. E ancora l’altra sera il capogruppo del Pd Zanda avrebbe provato a sondare Grasso per sapere «almeno l’orientamento di massima» sulla sua scelta. Niente da fare. E allora ieri, prima la Finocchiaro ha enunciato in Commissione «i criteri», che in pratica cancellano gli emendamenti sull’articolo due, poi Zanda ha chiesto la convocazione della conferenza dei capigruppo, per portare subito la riforma in Aula.
L’operazione è stata vissuta come un affronto pubblico da Grasso, che non a caso ha pubblicamente denunciato una «situazione di grave emergenza», nella quale ora è coinvolto. Le due mosse infatti lo trascinano nell’agone politico, lo costringono a confermare o rigettare i «criteri» adottati dalla Finocchiaro, e ad accettare o respingere la richiesta di Zanda di far votare subito dall’Aula la riforma. Possibile che una simile prova di forza sia stata decisa senza informare prima il capo dello Stato? Possibile che l’altro ieri Renzi non ne abbia fatto cenno al pranzo con Mattarella? Una cosa è certa: i telefoni del Quirinale e di Palazzo Madama sono muti, e men che meno si sono sentiti al Senato squilli da Palazzo Chigi.
Così un conflitto istituzionale si innesta per la prima volta in una crisi politica che attraversa i partiti di maggioranza e vede coinvolto un partito di opposizione: Forza Italia. Al dunque si vedrà quanti senatori della minoranza pd voteranno contro le riforme e quanti colleghi di Ncd li affiancheranno nella scelta. L’oggetto del desiderio e della trattativa parallela è la legge elettorale, su cui Renzi sembra irremovibile. «Farei prima a dimettermi», ha detto ad Alfano: «Eppoi, spiega ai tuoi che passerebbe per una vittoria di Berlusconi se lo facessi ora». «Ora» insomma no, per non consentire alla minoranza del Pd di organizzare un’eventuale scissione.
Quell’«ora» dev’essere giunto alle orecchie di Berlusconi, se è vero che — mentre tutti si interrogano sui numeri al Senato — nell’inner circle renziano si evoca «la forza della desistenza», l’assenza cioè di qualche senatore azzurro dall’Aula quando e se ce ne sarà bisogno. Si chiede Zanda: «C’è qualcuno che può prendersi la responsabilità di mandare in fumo il lavoro di un anno e mezzo per un dissenso sulla collocazione di una norma da mettere in Costituzione?». Viva la desistenza!