martedì 15 settembre 2015

Corriere 15.9.15
Ebrei Nemici degli ebrei
L’attività delatoria del triestino grini le invettive antisemite di umberto saba
di Paolo Mieli


Per anni nel secondo dopoguerra passò di bocca in bocca la voce che da qualche parte a Trieste fossero nascosti cinque forzieri che contenevano beni sequestrati dai nazisti agli ebrei (gioielli, orologi, persino protesi dentarie in oro) e poi lì abbandonati al momento della disfatta dell’esercito hitleriano. Forse in attesa di tempi migliori nei quali chi sapeva di quel tesoro avrebbe potuto recuperarlo. È di qui che prende le mosse un libro assai avvincente di Roberto Curci, Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista , in procinto di essere pubblicato dal Mulino.
Nel 1997, racconta Curci, «quasi per incanto si scoprì che in effetti le cinque casse colme di oggetti preziosi e personali… non erano fantasia o leggenda, e non giacevano in qualche segreto rifugio dei numerosi nazisti sfuggiti alla cattura, ma erano a Roma, alla Tesoreria centrale dello Stato». Quei beni furono restituiti all’Unione delle comunità ebraiche dall’allora ministro del Tesoro Carlo Azeglio Ciampi, che rilevò la pochezza di quel «risarcimento» e, nella cerimonia dedicata alla restituzione, disse che non si trattava di gioielli e altri preziosi, bensì di un «tesoro di memorie e di sofferenze».
La vita delle comunità israelitiche dell’Italia nordorientale era stata particolarmente drammatica ai tempi dell’occupazione nazista successiva all’armistizio del 1943. Giuseppe Jona, clinico di grande fama nonché presidente della Comunità ebraica di Venezia, il 17 settembre del 1943 si tolse la vita con un’iniezione di morfina, per non essere costretto a consegnare ai nazisti l’elenco aggiornato dei concittadini ebrei. Due mesi dopo, il 1° dicembre, «Il Gazzettino» giustificherà le persecuzioni naziste sostenendo che gli ebrei «nemici occulti o aperti, comunque mai smascherati, non potevano più vivere liberamente fra noi, troppo di questa libertà essi hanno in ogni tempo e in ogni circostanza approfittato». «Isolati nei campi di concentramento», proseguirà il giornale veneziano, «la loro azione sarà stroncata… e con i loro beni (si provvederà) ai più urgenti bisogni dei nostri fratelli colpiti dal terrorismo aereo». «La congiura giudaica aveva tirato troppo la corda, oggi la corda si è definitivamente rotta ed ha portato ai colpevoli il giusto castigo», concludeva l’articolo. E per gli ebrei fu l’inizio della fine. Una fine che fu resa ancora più atroce da alcuni casi di delazione.
Il 16 agosto del 1944, due dei cinque figli di Adolfo Luft e Teresa Ribarich si imbatterono alla stazione di Venezia in un loro correligionario «che conoscevano fin troppo bene». E uno dei due, non si sa se Adolfo o Ignazio, gli urlò: «Farabutto! Sappiamo che tu, ebreo, denunci gli ebrei!». Il destinatario di quelle accuse era Mauro Grini. Chi era l’uomo a cui era stato indirizzato quel grido e che «ancor oggi, per la comunità ebraica di Trieste, è «l’innominabile»?
Su Grini e sulle sue nefaste imprese, osserva Curci, «esiste ben scarna letteratura, cui fa comunque velo una diffusa, prudente reticenza, forse frutto di insondabili meccanismi di rimozione». Per «il delitto plurimo di cui si macchiò — magari lamentandosi della propria malasorte — mancò, e continua a mancare, un davvero plausibile movente». Né vale la pena di ricorrere a «opinabili verdetti psicoanalitici», alla «trita diagnosi dell’odio di sé, ovvero dell’antisemitismo semita… o a ipotesi di distorsioni dell’Io, di presunte esigenze di riscatto (o ritorsione) personale o sociale, difficilmente però attribuibili al dissipato giovanotto Grini, amante della vita agiata e — così affermava chi lo conobbe — delle belle automobili».
Su di lui resta una scheda diffusa dal Comitato di liberazione nazionale per l’Alta Italia, datata 1° marzo 1945 e destinata all’«attenzione» dei partigiani, che pubblicò Mimmo Franzinelli nel documentatissimo libro Delatori (Mondadori). C’è scritto che Mauro Grini è «specializzato» nella consegna alle SS dei suoi correligionari. Ne ha fatto catturare trecento a Trieste, un centinaio a Venezia e a Milano «continua con una media di due al giorno». «Percepisce settemila lire per ciascun ebreo che fa arrestare». «A Milano è in compagnia di due tedeschi, gira al centro e specie in Galleria».
Il nostro personaggio non risparmia neanche i suoi parenti più stretti. Sarebbe stato proprio lui, scrive Curci, «per disumano rancore nei confronti della sua medesima famiglia e in particolare del padre, a denunciare e a far rastrellare i Grini, a metà del ’44, proprio mentre il capofamiglia Samuele assieme alla moglie e al secondogenito stava meditando la fuga da Trieste e raccogliendo i mezzi necessari a propiziarla». Ma, secondo la testimonianza di Bruno Maestro, era stata una messa in scena: l’intera famiglia Grini si trovava sì nella Risiera di San Sabba, ma godeva di un «trattamento preferenziale». Di più: la madre cieca di Mauro Grini, Cornelia Coen Luzzatto, dotata di un’eccellente memoria, «collaborava ai rastrellamenti degli ebrei operati dal figlio Mauro, perché lo informava di quanti elementi ciascuna famiglia si componesse, così che nessuno potesse sfuggire e salvarsi». I Grini nel campo «godevano di un trattamento di eccezionale favore», testimonierà anche Enrico Breiner al giudice Sergio Serbo nel processo che si terrà nel giugno del 1967. In un successivo dibattimento giudiziario, celebrato nel 1976, il giudice fu costretto a mettere a verbale che nel dopoguerra, a Trieste, tutti i familiari dell’informatore «invero (e ingiustamente) furono considerati, e non solo nell’ambiente ebraico, quali beneficiati dall’opera di delazione e persecuzione svolta dal Mauro Grini». A cominciare dal fratello Carlo e da sua moglie Lidia Frankel.
Mauro Grini, in ogni caso, non si sarebbe limitato a prendere soldi dai tedeschi. Affiancato da una sua «donna-complice», Maria Collini, aveva offerto talvolta protezione alle sue vittime. Ma «spesso e volentieri incassa e poi tradisce, ossia garantisce di proteggere o salvare e poi non lo fa: chiede diecimila lire per evitare la deportazione del padovano Carlo Sommermann, che invece finisce in qualche campo di sterminio e non ne fa ritorno». Poi «arraffa quanto può nelle case di coloro che fa catturare: denaro, gioielli e capi di vestiario nell’abitazione di Simone Levi; libretti di banca “per l’ammontare di parecchie centinaia di migliaia di lire” in quella della famiglia Trevi», finita poi in Risiera; «centomila lire, gioielli e vestiti nell’appartamento di Paolo Macerata, deportato e scomparso; mentre in quella della maestra Grünwald Levi, appena fatta arrestare, “asportò subito un vestito da uomo e vari capi di biancheria”». Spesso le vittime lamentano di non avere più soldi. La sua minacciosa risposta è sempre la stessa: «Non la ga più schei? Ben, femo finta de crederghe». E — come ricorda lo storico Marcello Pezzetti ne Il libro della Shoah italiana. I racconti di chi è sopravvissuto (Einaudi) — molti ricorderanno di avergli sentito pronunciare quelle parole. Alle quali poi seguiva inesorabilmente un destino di deportazione e di morte.
Su che fine abbia fatto Mauro Grini le voci sono state contraddittorie. Ucciso dai tedeschi al momento della ritirata dalla Risiera perché «sapeva troppo». Ammazzato dai partigiani, come riferì il fratello. Qualcuno riferì di aver visto la moglie vestita a lutto. Altri di averlo intravisto a Milano con i capelli tinti. Incrociando questi elementi, scrive Curci, «è impossibile sottrarsi al sospetto che, ben lungi dall’essere stati uccisi, Mauro e Maria avessero deciso, di comune accordo, di imbastire una lugubre e beffarda commedia». E avessero continuato a vivere lontani da Trieste.
Un destino per certi versi simile a quello di Celeste Di Porto, la «pantera nera» di Piazza Giudia a Roma (l’attuale Piazza delle Cinque Scole), che aveva svolto un ruolo analogo a quello di Grini a danno degli ebrei della capitale e che, a guerra finita, se l’era cavata con condanne di modesta entità. Ed è su Celeste Di Porto che il Curci opera una congiunzione con la figura di un altro ebreo triestino, il poeta Umberto Saba (al secolo Umberto Poli), che aveva una libreria nella Via San Nicolò di cui al titolo del libro. Libreria per la quale passarono alcuni protagonisti di questa vicenda e che collega il tutto a Grini. La figura della Di Porto — ben raccontata da Giuseppe Pederiali in Stella di Piazza Giudia (Giunti) — intrigò Saba, il quale per lei scrisse che «odio, amore, sangue — nella vita e nella poesia — si mescolano più che non si creda; specialmente in epoche, come la nostra, turbate».
Saba (e di questo parla approfonditamente Stelio Mattioni in Storia di Umberto Saba , edito da Camunia) era riuscito a sottrarsi alle leggi razziali grazie a diverse mediazioni e intercessioni — Enrico Falqui, Curzio Malaparte, Giuseppe Ungaretti, Ardengo Soffici, Giuseppe Bottai. In una lettera a Mussolini (del gennaio 1939) il poeta chiedeva di «essere considerato a tutti gli effetti morali e di legge, quello che veramente mi sento di essere: un cittadino e uno scrittore italiano, di razza italiana».
Dopodiché, come ha scritto Giorgio Voghera — parlando del suo «antisemitismo nevrotico» nel libro Anni di Trieste (Editrice Goriziana) —, «le disumane angosce del periodo razziale crearono in lui una speciale insofferenza per un gruppo umano a cui egli non sentiva e non desiderava di appartenere, e un più accentuato atteggiamento critico, e quasi di repulsione, per gli ebrei, sui difetti dei quali la sua attenzione veniva… particolarmente attratta, tanto da considerarli almeno in parte responsabili delle sciagure che li avevano colpiti e che avevano indebitamente coinvolto anche lui». 
Questi suoi sentimenti contraddittori affiorano nello scambio di lettere (1946-1949) con lo psicanalista Joachim Flescher, che per primo ha occasione di constatare l’atteggiamento del letterato ostile al mondo ebraico. Il 14 marzo del 1949, Saba gli scrive: «Gli ebrei in quanto tali, la cui maggiore responsabilità consiste nell’essere stati i maggiori apportatori nel mondo del senso di colpa, cioè della sola effettiva colpa che esisteva, dovrebbero cessare di esistere». Parole che, osserva Curci, «pronunciate all’indomani della Shoah, sia pure nell’ambito di una privata conversazione con uno psicanalista, appaiono sconvolgenti». Tanto più che, in una parte successiva della lettera — pur dopo aver assicurato di non voler «fare del male agli ebrei» e di non volere «colpire gli individui» — l’autore del Canzoniere propone «l’immediata fucilazione alla schiena» per quanti praticano e fanno praticare la circoncisione. E suggerisce la proibizione del culto nelle sinagoghe nonché lo scioglimento delle comunità: «Che si battezzino, se vogliono battezzarsi, e se no rimangano (come ho fatto io) senza nessuna religione».
Voghera in parte giustifica il grande poeta per il fatto che il suo sistema nervoso era «già tanto logorato»: Saba «riteneva di dovere agli ebrei e all’ambiente ebraico molte delle proprie qualità negative, dei lati del proprio carattere che più lo facevano soffrire». In un’altra lettera privata, stavolta alla figlia Linuccia (del 15 gennaio 1953), Saba scrisse: «Penso che — tranne dal punto di vista pratico: persecuzioni ecc. — do quasi sempre ragione a… Hitler». E fu proprio Voghera, con una lettera al quotidiano di Trieste «Il Piccolo» del 1966, a stabilire per primo una qualche connessione tra la figura di Grini e quella di Saba. Con parole di discolpa per Grini al cospetto delle quali Curci non può fare a meno di manifestare una qualche «sorpresa».
Il libro si conclude con una sosta al cimitero ebraico di Trieste, dove i membri di alcune famiglie come i Frankel (due figlie si erano suicidate in via San Nicolò, una figlia, Lidia, aveva sposato Carlo Grini) giacciono in tombe diverse. Umberto Saba, scrive Curci, si avviò alla sua ultima stagione di uomo e di poeta «stordendo il suo madornale dolore (le sue ambivalenze, le sue angosce, forse i suoi rimorsi) con altrettante madornali dosi di morfina, facendosi iniettare più volte al giorno il provvidenziale Pantopon». Scelse anche lui come Grini e a modo suo di scomparire nel nulla.
Dei circa settecento ebrei triestini deportati ne tornarono, dopo il 1945, appena una ventina. E «preferiscono, quasi tutti, tacere». «Sparizioni di persone che non volevano o non si aspettavano di dover sparire, sparizioni di persone responsabili delle sparizioni precedenti, sparizioni di persone che invece scelsero di sparire, per aver salva la vita o, all’opposto, per rifiutarla e sbarazzarsene». In conclusione quella di cui allo sconvolgente libro di Roberto Curci può essere definita, appunto, una storia di sparizioni. Che fanno parte anch’esse di quel «tesoro di memorie e di sofferenze» di cui nel 1997 parlò Ciampi.