venerdì 11 settembre 2015

Corriere 11.9.15
Premi di maggioranza il possibile rischio di incostituzionalità
Serve una norma che preveda si raggiunga una buona percentuale di voti validi rispetto a primo turno
di Paolo M. Napolitano
Ex giudice della Corte costituzionale

C aro direttore, mentre nelle altre grandi democrazie occidentali i sistemi elettorali costituiscono un dato quasi immodificabile, in Italia, in poco più di venti anni, ve ne sono stati ben tre che hanno regolato lo svolgimento delle elezioni politiche. Ad essi se ne è aggiunto da poco un quarto. Nel 1992 si è infatti votato con il sistema proporzionale, nelle elezioni del 1994, del 1996 e del 2001 con un maggioritario uninominale «ammorbidito» da un 25% di seggi attribuiti col proporzionale e nelle elezioni del 2006, del 2008 e del 2013 con un maggioritario di lista travestito da proporzionale. Dopo che la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità di quest’ultimo, nel 2015 è stato approvato un quarto sistema elettorale, che nelle future elezioni, se si svolgeranno dopo il 1° luglio del 2016, si applicherà solo alla Camera dei deputati.
Il punto più problematico della futura normativa è rappresentato dall’attribuzione del premio di maggioranza alla lista che prevalga nel ballottaggio. È infatti previsto che se la lista non abbia ottenuto al primo turno la percentuale richiesta per l’attribuzione del premio di maggioranza (cioè il 40%) si proceda al ballottaggio tra i due schieramenti che hanno ottenuto il maggior numero di voti e si attribuisca a quello che prevale un premio (pari a 340 deputati) che assicuri la maggioranza assoluta alla Camera.
Anche se si è da più parti affermato che il modello di riferimento è stato quello spagnolo, le caratteristiche che la nuova normativa presenta inducono a ritenere che il Parlamento si sia ispirato al sistema previsto per le elezioni del Sindaco e dei Consigli nei Comuni con più di 15.000 abitanti. Ma vi è una fondamentale differenza tra enti, come i circa 750 Comuni d’Italia cui si applica detta normativa, e quella che verrebbe ad essere l’unica Assemblea legislativa. Il primo passaggio operato dalla legge è stato quello di configurare l’Italia come un unico collegio elettorale. Anche se la legge ripartisce il territorio nazionale in 20 circoscrizioni e in 100 collegi elettorali, occorre tenere presente che quelli sono criteri interni per individuare i candidati che saranno proclamati deputati. Il criterio di ripartizione esterno è, invece, quello del conseguimento della maggioranza relativa. Si prevedono, poi, le due ipotesi che determinano la modificazione genetica della maggioranza relativa in maggioranza assoluta. Se già la prima ipotesi può far sorgere qualche dubbio, in quanto prevedere, per assicurare la governabilità, un premio di maggioranza che può arrivare al 15% dei seggi potrebbe sembrare ai confini delle regole democratiche, dubbi di ben più ampie proporzioni suscita la seconda ipotesi, che l’attuale frammentazione del quadro politico rende probabile che si realizzi. Se al ballottaggio tra due forze che hanno ottenuto al primo turno tra il 20 ed il 25% dei suffragi si recasse alle urne meno della metà del corpo elettorale potrebbe prevalere una formazione politica che ottenga, in cifra assoluta, più o meno lo stesso numero di suffragi conseguiti precedentemente. Si può ritenere una corretta applicazione delle regole democratiche l’attribuzione a questa formazione di un premio di maggioranza superiore al 30% dei seggi? Il ballottaggio non può essere ritenuto uno strumento di per sé legittimante, a prescindere dai voti che ottenga la formazione che in esso prevale.
Già può immaginarsi l’obiezione di chi affermerà che proprio nelle grandi democrazie innanzi citate vi sono leggi elettorali che prevedono sistemi maggioritari in cui viene eletto il candidato che, al primo turno o al turno di ballottaggio, ottiene la maggioranza relativa. Ma vi sono due fondamentali differenze. La prima è che in Italia si è previsto un collegio unico nazionale in cui chi prende al ballottaggio un voto in più ha la maggioranza assoluta. Nel Regno Unito o negli Stati Uniti in ciascun collegio viene eletto chi ottiene più voti, ma i collegi elettorali sono, rispettivamente, 650 per la Camera dei Comuni inglese, 435 per la Camera e 50 per il Senato degli Usa. In Francia, in cui è previsto, nel caso in cui nessuno ottenga il 50% dei voti, un ballottaggio tra chi ottiene almeno il 12,5% dei voti, i collegi per l’Assemblea nazionale sono 577. La differenza è fondamentale, dato che è inevitabile che forze politiche con un limitato seguito bilancino l’eventuale vittoria in un collegio con la sconfitta in un altro. La seconda differenza è che mentre nelle democrazie che adottano il maggioritario la circostanza che un partito ottenga la maggioranza assoluta dei seggi è un evento favorito ed auspicato, ma non reso obbligatorio dalla legge, da noi è un risultato che si viene ad imporre forzatamente a prescindere dalla consistenza della forza politica. Non si vede, quindi, come si possa sfuggire a ciò che la Corte costituzionale ha già affermato nella sentenza n.1 del 2014, quando ha dichiarato l’illegittimità del premio di maggioranza previsto nella precedente legge elettorale, in quanto si tratta di disposizioni che «producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica ... e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto».
Appare, quindi, necessario, se non si vuole incorrere nel probabile rischio che la nuova legge elettorale sia dichiarata incostituzionale, che la si integri prevedendo che per il conseguimento del premio di maggioranza nel ballottaggio debba almeno essere raggiunta una apprezzabile percentuale di voti validi rispetto a quelli complessivamente espressi al primo turno. Se non scattassero le condizioni per l’attribuzione del premio di maggioranza, non potrebbe che derivarne, stante l’impianto dell’«Italicum», la ripartizione proporzionale dei seggi .

Corriere 11.9.15
Bersani: il mio voto alla riforma? Solo se si cambia l’articolo 2
Applausi alla festa dell’Unità di Firenze: non sento Renzi dall’elezione di Mattarella
di Marco Imarisio

FIRENZE Neppure l’assaggio del micidiale sugo di pecora allo stand di Campi Bisenzio gli viene risparmiato. «Ma non sono nella tana del lupo» dice.
Pier Luigi Bersani percorre tutti e sette i gazebo della Festa dell’Unità di Firenze con lo stesso sorriso e un evidente compiacimento. Gli piace essere qui. A ogni tappa arriva immancabile la domanda dei volontari sul convitato di pietra e lui non si sottrae. «Non è solo la città di Matteo Renzi» fingendo ogni volta sorpresa. «È anche la città della sinistra e dell’Ulivo. E poi siamo in una zona franca». Avanti un altro.
Il ritorno dell’ex segretario avviene in fascia quasi pomeridiana. Il colloquio pubblico con il giornalista del Corriere fiorentino Claudio Bozza è fissato alle 19. La prima serata, ore 21, è riservata al sindaco Dario Nardella, come a dire il giorno e la notte in rapida successione. All’ingresso delle Cascine, sede tradizionale della festa, c’è un picchetto d’onore composto da una legione di renziani veraci, ai quali non manca di ricordare con malizia di aver fatto anche lui una Leopolda, e pure in anticipo sui tempi. Era il 2009, un convegno sulla manifattura alla stazione di Pisa, che porta il nome di quella resa celebre dagli allora rottamatori. «Matteo mi ha fregato l’idea» dice, premurandosi di aggiungere subito un «oh ragassi si scherza» davanti ad alcuni sguardi in tralice. Il primo a fermarlo è un ragazzo disabile. «E Fassina?» Bersani alza le spalle. «Se lo vedi, magari salutamelo». Un anziano lo abbraccia dopo avergli mostrato con orgoglio la borsa rossa. Dopo i saluti il sorriso si eclissa. «C’è un pezzo della nostra gente, ma bello grosso, che ha l’impressione di essere portata dove non vuole andare».
All’ingresso erano tutti renziani, di vecchio e nuovo conio, ma sotto al palco sovrastato dalla scritta «Oltre» sembrano tutti bersaniani. Sono almeno in cinquecento, con tanti posti in piedi, e a denti stretti gli organizzatori ammettono che finora nessuno aveva portato così tanta gente. L’ovazione da tutti in piedi che lo accoglie non era affatto scontata. L’ultima uscita ufficiale da queste parti è un ricordo piuttosto doloroso, comizio nell’ultima settimana di campagna elettorale per le Politiche del 2013, quando l’allora sindaco Matteo Renzi salì sul palco con il candidato premier del Pd, un’intesa poco cordiale che durò lo spazio di una «quasi vittoria». Adesso tutto si è capovolto. L’atmosfera è davvero amichevole, ma le cortesie durano il tempo di nominare le riforme. «Sento dire che si vuole trovare una mediazione. Bene, d’accordo. Ma fatico a comprendere come questa mediazione possa essere fatta senza toccare un articolo che dice totalmente il contrario di quel che sosteniamo. Se qualcuno mi spiega come si fa... ma la vedo molto complicata. E tanto per essere chiari, io la riforma la voto solo se si cambia l’articolo 2».
A un centinaio di chilometri di distanza, a Reggio Emilia, il suo amico Vasco Errani, molto stimato a Palazzo Chigi, si produce in una cauta apertura dicendo che una riforma del Senato «ci vuole» ma per farla bisogna unire il Pd tramite adeguata sintesi. Ascoltando Bersani la sensazione è che trovarla non sarà certo una passeggiata. «Renzi? Non lo sento dall’elezione del presidente della Repubblica. Ma ne ho fatto qualcuno anch’io, di comizio: mi avete mai sentito parlare male della minoranza del Pd? No, mai, perché comunque quella è tutta gente tua, non sono mica nemici».L’insofferenza bersaniana per l’erigenda nuova struttura costituzionale diventa evidente quando si parla dei contrappesi in democrazia. «Senza finanziamento pubblico, senza legge sui partiti e sulle primarie ma con questo Italicum non avremo più un uomo solo al comando, ma un uomo solo al guinzaglio di chi può pagare le campagne».
«Renzi sta spezzando il partito!» gli urlano dalla folla, e lui si mette in modalità paternalistica. «Siamo ancora giovani, fatichiamo a parlarci. Ma ora è necessario farlo». E se non dovesse accadere? «Mai e poi mai la scissione». Ovazione conclusiva e almeno una ventina di selfie. Bersani esce dalla porta principale della presunta tana del lupo. E comunque non può lamentarsi dell’orario. Anche il dibattito di domani tra Massimo D’Alema e Gianni Cuperlo è stato fissato alle 19. In contemporanea con Fiorentina-Genoa.

Repubblica 11.9.15
Bersani: “Senato elettivo o non voto”
L’ex segretario: “Va superato lo stallo sull’articolo 2, ma la vedo dura”. Applausi alla festa dell’Unità di Firenze Il tavolo bicamerale del Pd sarà allargato anche all’Ncd. I governatori: “Più competenze e noi senatori di diritto”
di Giuseppe Alberto Falci

ROMA «Voterò la riforma soltanto se si supererà lo stallo sull’articolo 2, ma la vedo dura». Alla fine di una giornata iniziata con il primo incontro della commissione bicamerale del Pd sul ddl Boschi, Pier Luigi Bersani torna a battere i pugni dalla festa del Pd di Firenze. A casa del premier-segretario gli applausi per lui si sprecano e l’ex leader invia un segnale a Palazzo Chigi. Il tasto su cui batte Bersani è sempre lo stesso: modificare l’articolo 2 del disegno di legge sulla riforma, quello sull’elettività del Senato. Dunque, anche se il sottosegretario alle riforme Luciano Pizzetti esclude la fiducia sul punto, le distanze restano siderali. Nella prima riunione del tavolo sulle riforme, che si è tenuta ieri a Palazzo Madama e che tornerà a riunirsi stamane alle 10,30, si è aperto il confronto. È stato definito un metodo, ma, assicurano, «non si è entrato nel merito delle questioni». Il nodo elettività non è stato affrontato, ma si è discussa la ridefinizione delle funzioni e le competenze del nuovo Senato delle autonomie. Al tavolo hanno preso parte Maria Elena Boschi, Pizzetti, i capigruppo di Camera e Senato, Ettore Rosato e Luigi Zanda, Emanuele Fiano, la capogruppo in Commissione affari costituzionale Doris Lo Moro e la deputata Barbara Pollastrini, entrambe della minoranza. Un incontro preliminare che non è risultato divisivo. D’altro canto, «è già un fatto positivo aprire un tavolo istituzionale - ha spiegato la Lo Moro, che è anche uno dei firmatari del documento dei dissidenti». Ma, continua, «il problema è politico, anche se non escludo che il tavolo istituzionale possa sciogliere i nodi politici». Però gli interventi migliorativi non riguarderanno l’elettività del Senato. Avverte il vicesegretario Lorenzo Guerini: «Qualcuno non pensi di riportare le lancette dell’orologio al punto zero, significherebbe mettere in discussione la possibilità di arrivare fino in fondo». Si lavora sì «ad una soluzione che sia condivisa tra Camera e Senato, perché ovviamente ci auguriamo che questa sia la lettura definitiva», ha detto il ministro Maria Elena Boschi. Nei prossimi giorni il tavolo istituzionale potrebbe essere esteso anche al Ncd di Angelino Alfano. Intanto, sfilano i governatori di Piemonte, Campania e Toscana per le audizioni in commissione Affari costituzionale. Sergio Chiamparino mette sul tavolo: «Nel nuovo Senato servirebbe la presenza degli esecutivi regionali, dei sindaci ma anche dei presidenti delle Regioni, insieme alle minoranze».

il manifesto 11.9.15
Riforme, Renzi senza numeri tentato dal rinvio
Lo «scouting» di Lotti non fa breccia.
Ipotesi di anticipare le unioni civili. Ma il rischio è far saltare l’Ncd, già lacerato
Alfano: «Chi vuole se ne vada»
di Andrea Colombo

«Vogliamo tutti che la riforma venga approvata entro il 15 ottobre e se possibile con qualche giorno di anticipo», parola di Luigi Zanda, reduce dalla prima riunione convocata per quadrare il cerchio tra maggioranza e minoranza Pd. Missione impossibile: sul punto della emendabilità dell’art. 2 sul Senato elettivo nessuna delle due parti intende cedere di un millimetro. Dagli spalti del governo tutti confermano le parole del capo dei senatori: la riforma va approvata entro metà ottobre, prima che parta la giostra della legge di bilancio.
Eppure, nonostante le assicurazioni, qualche dubbio, inconfessato o tutt’alpiù sussurrato, comincia a circolare. Il fatto è che sul pallottoliere di Luca Lotti i conti continuano a non tornare. Gli incontri inaugurati ieri mattina non approderanno a nulla e lo sanno tutti. Ieri sera si è incaricato di cercare una ulteriore mediazione Roberto Calderoli. La sua proposta prevede un Senato elettivo, ma anche il leghista prevede quell’intervento sull’articolo 2 che Renzi non è disposto a concedere a nessun costo. Dunque, alla fine, recuperare metà dei 28 dissidenti sarebbe già un risultato da fregarsi le mani.
Poi ci sono i segnali negativissimi provenienti dalla destra, quella di governo e quella d’opposizione. L’Ncd ormai nemmeno più nasconde la lacerazione. Certo Alfano il Capitano prova a ripetere che tutto va benone, e quindi «chi vuole andare con Berlusconi, Renzi, Grillo o Salvini vada, io vado avanti con chi vuole stare con me». E’ solo un modo indiretto per ammettere che di senatori e deputati che nel progetto di Angelino non credono più ce ne sono tanti. Tutta colpa di quei sondaggi che danno gli ex azzurri sotto il 2%, lontanissimi dalla soglia del 3% necessaria per entrare in Parlamento con l’Italicum. Il patto con cui il ministro degli Interni prova a salvare la situazione, un accordo con Renzi che prevederebbe una quindicina di eletti Ncd nelle liste del Nazareno, è quasi un rimedio peggiore del male: si tratterebbe di una decimazione in piena regola.
Sul fronte azzurro, le notizie sono altrettanto poco confortanti. Nessuna speranza di un voto a favore delle riforme da quelle parti, ma palazzo Chigi conta su una fila di uscite strategiche dall’aula nei momenti giusti: quando si voterà l’art. 2, probabilmente non emendato dal momento che difficilmente il presidente Grasso concederà di riaprire i giochi, e quando si arriverà al voto finale. Ma le defezioni forziste promettono di essere pochine. L’arma di Renzi, si sa, è la minaccia di elezioni anticipate, che però dovrebbero passare l’ostacolo Quirinale, dato che Mattarella non intende sciogliere le camere. Ma soprattutto nelle residue truppe di Berlusconi si sta facendo largo l’opinione che, anche se Renzi dovesse usare il suo cannone, in fondo potrebbe trattarsi del male minore. Si voterebbe per entrambe le camere con il proporzionale. Dopo le elezioni un accordo tra Pd e Fi sarebbe quasi obbligatorio, e a quel punto difficilmente l’ex cavaliere accetterebbe di incoronare ancora il fiorentino.
Renzi non ha alcuna intenzione di arrivare all’appuntamento con la legge di stabilità dopo una sconfitta così sonora come quella che sta concretamente rischiando. Al contrario, la sua strategia prevede di affrontare il capitolo finanziaria dopo un successo d’immagine indiscutibile: o la riforma costituzionale o le unioni civili. Se nei prossimi giorni non si sbloccherà la situazione sulla riforma, potrebbe quindi risultare conveniente procedere con l’altra legge-trofeo. Ma anche in questo caso, la rosa ha molte spine. Le unioni civili comportano inevitabilmente uno scontro con l’Ncd. La legge passerebbe comunque, con il voto dell’M5S e quasi certamente anche di Sel. Ma il viatico per le riforme non potrebbe essere peggiore. Dunque, alla fine, Renzi deciderà probabilmente di mantenere la rotta fissata e tentare il tutto per tutto sulle riforme.

Corriere 11.9.15
L’impotenza reciproca costringe tutti a trattare
di Massimo Franco

La spinta a trovare un accordo sta aumentando. La moltiplicazione delle sedi di discussione dà il senso di una volontà di dialogo che fino a pochi giorni fa non era scontata. E può cominciare ad aprire qualche crepa negli aut aut reciproci che il governo di Matteo Renzi e la minoranza del Pd hanno continuato ad opporsi a qualunque ipotesi di intesa. Non è ancora chiaro su che cosa si raggiungerà un compromesso. La sensazione è che l’articolo 2, quello sull’elezione dei senatori, sia una bandiera solo in apparenza irrinunciabile: dal premier e dagli avversari.
Aumenta la consapevolezza che uno scontro prolungato possa portare ad una spirale destabilizzante. I segnali che arrivano discretamente dal Quirinale lasciano capire che una crisi di governo sarebbe, oltre che inopportuna, rischiosa; e dunque è bene prevenirla. La cautela del presidente del Senato, Piero Grasso, sulle modifiche all’articolo 2 conferma la volontà di permettere al Pd di ritrovare un simulacro di dialogo. E lo stesso Renzi è stato convinto a mostrarsi più disponibile a trattare. Per questo le voci di un ricorso alla fiducia per votare la riforma del Senato, e cioè una legge costituzionale, sono di colpo state smentite.
Sarebbero suonate come una forzatura tale da acuire e non attenuare le resistenze. In questo momento, il presidente del Consiglio non se lo può permettere: i voti della maggioranza sono davvero appesi ad un filo. Non si tratta solo del conflitto nel Pd, con l’ex segretario, Pier Luigi Bersani, che lo invita a parlare con quanti sono in disaccordo con Palazzo Chigi, perché non vuole la scissione: un modo indiretto per dire che altrimenti Renzi rischia di ritrovarsi il partito lacerato. Anche il nervosismo palpabile di Angelino Alfano, ministro dell’Interno e leader del Nuovo centrodestra, segnala un altro fronte aperto: piccolo ma pericoloso.
L’ipotesi di un’alleanza strategica col centrosinistra renziano, abbinata a riforme istituzionali che non tutti condividono, sta accentuando le tendenze centrifughe; e indebolendo la coesione della coalizione governativa. La stessa idea di arrivare al «sì» arruolando pezzi di Forza Italia deve fare i conti con una situazione tutt’altro che tranquilla anche dentro il movimento di Silvio Berlusconi. Insomma, la sensazione è che Renzi non possa vincere come vorrebbe; ma che anche i suoi oppositori non siano in grado di piegare il premier fino a fargli accettare l’elezione diretta dei senatori. Il cambio di clima, sebbene ancora all’inizio, è figlio dunque di questa doppia impotenza.
Sembra che tra gli esponenti della minoranza non sia stata gradita la decisione del governo di sottrarre i fondi destinati agli esodati, per finanziare invece l’abolizione delle tasse sulla casa. L’episodio ha riacuito la diffidenza nei confronti del premier. Ma la volontà di andare avanti è prevalente. La decisione di creare un «tavolo» con senatori e deputati serve a garantire che qualunque decisione poi non sarà cambiata nel passaggio da un ramo all’altro del Parlamento. Ma per arrivare ad una soluzione si dovrà frenare una voglia di resa dei conti accarezzata troppo a lungo. E ancora forte, dentro il Pd.

Il Sole 11.9.15
Dietro la disputa sulle riforme solo uno scontro di potere nel Pd
Nell’appoggio che la destra ha dato e forse darà a Renzi st la chive di lettura del futuro della politica
di Montesquieu

Non c’entra il Senato… Al cuore dello scontro in Senato sulla riforma costituzionale non vi è - o non vi è solamente - il tradizionale, fisiologico, salutare (per gli elettori) contrasto tra Governo e maggioranza da un lato, e opposizioni dall’altro. Come non vi era solo quello nel travagliato dibattito sul cosiddetto jobs act, o sulla “buona scuola”, o altrove. Ben più rovente è la dialettica tra maggioranza renziana e minoranza di sinistra all’interno del partito democratico: qualcosa di più e di diverso da un ordinario disaccordo di merito, superato il quale le relazioni tra le componenti di un partito ritrovano le ragioni della convivenza e ristabiliscono buone relazioni. Vi è piuttosto, uno scontro di filosofia politica e istituzionale, tutto interno al partito che domina il confronto politico, quasi senza veri avversari, dalla nascita del governo in carica. Come a dire: che si trovi o meno un accordo tra maggioranza e minoranza democratica sul Senato – dove si discute con spropositato accanimento di dettagli, rispetto alla reale dimensione della questione -, non passerà molto tempo prima che si riproponga un nuovo motivo di conflitto, ugualmente virulento. E magari ancora su un dettaglio.
Quello che succede nel pd ricorda un fenomeno non raro nelle famiglie: si chiama incompatibilità di carattere, si sfrangia in tanti piccoli pretesti pur essendo un macigno, ed è normalmente insuperabile.
Un vero accordo di convivenza pacifica e duratura non sarebbe teoricamente impossibile: a patto che l’uno dei due contendenti – ovviamente quello al momento più forte, ma in contingente difficoltà -, fosse disposto ad accettare una delle richieste simbolicamente dirimenti della controparte. Ad esempio, l’incompatibilità nella stessa persona e nel medesimo tempo degli incarichi di capo del governo e di segretario del partito democratico. Basterebbe che Matteo Renzi si dichiarasse disponibile, in vista del prossimo congresso, a scegliere tra partito e governo: verosimilmente rinunciando alla guida del partito. Un ritorno ad una regola non scritta, ma costantemente praticata, nella cosiddetta prima repubblica. È importante per la minoranza che si “veda“ in controluce, in sostanza, la provvisorietà del mandato governativo, la sua caducità, la sua non dipendenza dal volere del capo dell’esecutivo. O una speranza di tutto ciò. Nulla può produrre un tale effetto, sul modello dei primi decenni della repubblica, quanto la presenza di un ravvicinato successore in carne ed ossa, paradossalmente anche se vicino alle posizioni del capo del governo in carica; o, quantomeno, di un capopartito che abbia parte nella formazione e nella durata di un governo. Si potrà dire che proprio nella riforma costituzionale in esame ci sono buone deterrenze ad un ritorno a quel tipo di passato: ma la distribuzione accurata del potere produce effetti modificativi dei rapporti di forza. E la guida del partito di governo è una leva potente.
Oppure, per una pace duratura, servirebbe un impegno ad una diffusione del potere, quello relativo agli incarichi di governo amministrativi e a quello parlamentare di prospettiva, con garanzie di sopravvivenza e corposa rappresentanza di tutte le componenti interne negli organismi elettivi futuri.
Accordi di questo tenore, o altri facilmente configurabili, hanno ben poco a che vedere con la riforma del Senato, e ancor meno con l’articolo 2 della stessa: e sarebbero di facile raggiungimento se a separare, a tenere lontane le due componenti non fossero quelle che abbiamo chiamato distanze di filosofia politica ed istituzionale. Se Renzi è completamente immerso nei connotati distintivi della seconda repubblica, quanto a visione maggioritaria e personalistica del potere politico e di governo, di contrarietà a compromessi soprattutto in casa (al punto da essere assimilabile, in questo - quindi, si badi bene, senza conflitti di interesse consolidati -, al protagonista vero del ventennio passato, Silvio Berlusconi), la componente di minoranza del partito è culturalmente portata al potere condiviso, consociato, magari anche solo legislativamente, la cui negazione le ha creato spaesamento dopo il 1994. Potere condiviso quindi, per cultura istituzionale, anche quando quella componente si trovi dalla parte di chi il potere si trova a cederlo, senza egoismi.
Ci sono anche altri motivi, nella incomprensione tra maggioranza e minoranza del pd, e tutt’altro che secondari: ad esempio, il timore che la conduzione personalistica e oligopolistica del partito che allontana la minoranza dalle leve di decisione produca una mutazione genetica dei connotati del partito stesso . Timore soprattutto radicato e radicabile nella componente di radice comunista, che si troverebbe, da egemone quale era, a componente egemonizzata, marginalizzata , gregaria.
Ma anche questi motivi possono essere riassorbiti in un accordo del tipo di quelli accennati ..
La paura di una mutazione dei geni di una comunità politica riporta alla situazione del PSI a seguito della presa della segreteria nazionale e poi del governo da parte di Bettino Craxi, gli anziani lo ricorderanno. Ed anche, recentemente, con la breve ma intensissima parabola che portò Gianfranco Fini a mostrare in controluce il volto di una destra di tipo europeo e comunque autenticamente liberale, e che fu ricacciata con violenza dal capo del partito che non tollerava opposizioni. Due casi analoghi per la insolita qualità di alcuni quadri dirigenti – a titolo di esempio, Giuliano Amato e Claudio Martelli accanto a Craxi; Alessandro Campi e Benedetto Della Vedova con Fini: una capacità di scelta che Matteo Renzi deve ancora dimostrare.
I tre casi - ma soprattutto in quelli che hanno come protagonisti Fini e Renzi - hanno in comune un tifo non contenuto degli avversari tradizionali ed ufficiali, la sinistra che stravedeva per il vecchio capo postfascista, il centrodestra che ha tifato per l’ex sindaco fiorentino.
Ha tifato, o ancora tifa? Nella risposta a questo quesito si trova una delle chiavi di lettura di un futuro misterioso della politica e delle istituzioni italiane.

Il Sole 11.9.15
Una scuola nuova solo a metà
Pronte le linee guida per l’alternanza
Le assunzioni non frenano le supplenze: attese 60mila
di Eugenio Bruno

L’esempio l’ha dato Bolzano lunedì scorso. Due giorni dopo è toccato al Molise e l’indomani alla provincia di Trento. Tra lunedì e martedì prossimo si uniranno tutte le altre Regioni. Tranne Puglia e Veneto che aspetteranno mercoledì 16 settembre. A quel punto tutti i 7,8 milioni di studenti italiani saranno tornati tra i banchi. Ma l’anno scolastico che si apre non si annuncia facile. Tra vecchi problemi e nuove difficoltà: cattedre scoperte nonostante il maxi-piano di assunzioni; supplenti in numero pari o addirittura superiore rispetto agli altri anni; un migliaio di istituti ancora senza preside. Per non parlare delle polemiche che hanno accompagnato il varo della “Buona scuola” e che ne stanno accompagnando ora l’applicazione. Con collegi dei docenti disertati, assemblee sindacali convocate in concomitanza con il ritorno in classe e nuovi cortei all’orizzonte. Ma una luce che squarcia il buio c’è: l’attuazione dell’alternanza scuola-lavoro avrà la priorità sulle altre misure della legge 107.
Conviene partire da qui allora. In un paese dove appena il 4% degli studenti studia e lavora (contro il 20% e oltre della Germania) rendere la formazione on the job obbligatoria per 400 ore nei tecnici e nei professionali e per 200 nei licei, a partire dal terzo anno, non è una novità di poco conto. Ed è per questo che gli uffici del Miur si stanno concentrando per attuarla il prima possibile. Con una novità delle ultime ore. Accanto alla carta dei diritti e dei doveri che è quasi pronta e al registro delle imprese a cui il ministero sta lavorando insieme alle Camere di commercio arriveranno anche le linee guida con le istruzioni per gli istituti alle prime armi. Probabilmente la settimana prossima.
Ancora maggiore solerzia è stata dedicata alle assunzioni. Alle 29mila immissioni in ruolo già disposte tra fine luglio e inizio settembre se ne aggiungeranno oggi almeno 8.200. Tanti sono infatti i precari che alle 19 di ieri sera avevano accettato uno degli 8.776 incarichi distribuiti nell’ambito della “fase B” del piano di stabilizzazioni previsto dalla “Buona scuola” oppure una delle supplenze che gli uffici scolastici regionali dovevano attribuire entro l’8 settembre per permettere così agli aspiranti stabilizzandi di scegliere tra la presa di servizio immediata, magari in un posto lontano da casa, oppure posticipata alla fine dell’incarico temporaneo ricevuto nel frattempo. Solo in 16 avevano invece rifiutato, chiamandosi così fuori dall’intero piano.
Il numero complessivo delle accettazioni e dei rifiuti si conoscerà solo nelle prossime ore. I prof che non hanno ancora deciso potranno farlo fino alla mezzanotte di stasera. A quel punto il testimone passerà agli uffici scolastici territoriali che saranno aperti anche domani per fare firmare a tutti i docenti, entro lunedì, il contratto di assunzione e a inviarli così in classe. Ma non è detto che la complessa macchina organizzativa messa su da viale Trastevere riuscirà nell’obiettivo di ridurre il numero di classi senza insegnante che caratterizza i primi giorni di scuola. Aver fissato all’8 settembre la dead line per l’attribuzione delle supplenze potrebbe fornire un aiuto in questa direzione visto che gli anni scorsi questa pratica veniva conclusa ad anno scolastico già iniziato.
Le supplenze, appunto. Un istituto che all’inizio del percorso della “Buona scuola” il governo voleva eliminare. Salvo riconoscere in corso d’opera che quest’anno non sarebbe stato possibile farlo. Aver limitato la stabilizzazione ai soli docenti delle graduatorie a esaurimento, oltre che agli idonei e ai vincitori dell’ultimo concorsone, ha reso di fatto insufficienti le 100mila assunzioni complessive in programma. Inclusi i 55mila posti di potenziamento che saranno assegnati a dicembre dopo aver raccolto i “desiderata” dei dirigenti scolastici sulle materie da rafforzare.
Risultato: gli insegnamenti che risultavano scoperti già negli anni scorsi, ad esempio matematica nelle regioni del Nord, tali resteranno anche stavolta. Per colmarli, a partire dalla prossima settimana, i dirigenti scolastici dovranno attingere alle graduatorie d’istituto. Nel complesso si stima un numero di supplenti uguale, se non addirittura superiore, rispetto ai dati del recente passato. Al momento se ne contano circa 60mila tra posti di sostegno dell’organico di fatto, disponibilità comuni e cattedre rimaste vacanti durante la “fase b” delle assunzioni. Ma è un contingente destinato a salire.
Per il resto non sarà un anno scolastico come tutti gli altri. Sia per l’arrivo delle altre novità della legge 107 attese in corso d’anno: dalla nomina dei comitati per la valutazione dei docenti alla card da 500 euro per la loro formazione, dai nuovi piani triennali per l’offerta formativa (che si applicheranno però dal 2016/2017) al piano nazionale per la scuola digitale. Sia per l’impatto dei processi già in atto: dalla valutazione, con le scuole che dovranno depositare entro il 30 settembre i loro rapporti di autovalutazione che dal giorno dopo saranno online sul portale “Scuola in chiaro”, alla nuova didattica laboratoriale finanziata per 45 milioni. Un insieme di temi e interventi che, per cominciare a dare i suoi frutti, necessiterebbe forse di un altro clima rispetto a quello che si continua a respirare intorno al mondo dell’istruzione.
Delle assemblee e delle proteste si è detto. Ma all'orizzonte c’è già un’altra grana. Dopo il Veneto anche la Puglia potrebbe decidere di ricorrere alla Consulta contro la riforma Renzi-Giannini. In tal senso si è già espressa l’Avvocatura regionale. L’ultima parola spetterà ora al governatore Michele Emiliano e alla sua giunta.

La Stampa 11.9.15
Più nascite, lavoratori e contributi
Il welfare italiano appeso agli immigrati
Il demografo Rosina: da noi situazione simile alla Germania
di Roberto Giovannini

Germania e Italia sono i Paesi a maggior tasso di invecchiamento d’Europa, e tra i primi nel mondo dopo il Giappone. Come tutti gli esperti confermano, molto presto questo fenomeno in progressivo aggravamento rischia di creare gravi conseguenze. «Non solo sull’economia, ma anche sul welfare, sulla spesa sanitaria - spiega Alessandro Rosina, professore di Demografia alla Cattolica di Milano - e in ultima analisi anche dal punto di vista della sostenibilità sociale». Sì, perché un Paese ha bisogno del motore produttivo economico e culturale assicurato dalle giovani generazioni. Che in Europa si stanno riducendo, contraendo la quota di popolazione potenzialmente produttiva, e al contrario incrementando - per quanto si sposti sempre più in avanti l’età di pensionamento - la popolazione anziana.
Nuove generazioni
Italia e Germania hanno una struttura demografica assolutamente analoga, con la fecondità e la natalità in calo, e tanti anziani (nel Belpaese un pochino più longevi). Nella triste classifica del tasso di dipendenza strutturale degli anziani - il rapporto tra la popolazione di 65 anni e più, e quella tra 15 e 64 anni - noi abbiamo 33,1 anziani ogni 100 «attivi», loro 31,5.
La Turchia ne conta 11,3, la Nigeria solo 4,5. Ma il problema si affronta in modo molto differente, come mostra la decisione della cancelliera Angela Merkel di accogliere per diversi anni 500 mila immigrati l’anno. «La differenza è tutta qui - afferma il demografo - la Germania sa cogliere per tempo le trasformazioni in corso, cercando di capire come guidarle per ridurre i rischi».
Si sa che nel Paese della Merkel da sempre si investe sulla qualità, puntando sulla ricerca, la formazione e la valorizzazione del capitale umano. Ma ora c’è anche un problema quantitativo che riguarda le giovani generazioni. Che vengono rafforzate attirando in Germania talenti - la scelta di molti giovani «cervelli» italiani - ma anche immigrati extraeuropei.
Politiche miopi
Secondo Rosina, l’Italia in questi anni ha fatto politiche di contrasto e non di valorizzazione della qualità dell’immigrazione, attirando le persone più «necessarie» e più facili da includere. La Germania, al contrario ha saputo guardare lontano, «sa di quali competenze dispone e quali deve attirare». E dunque, c’è il serio rischio che mentre i giovani italiani più qualificati andranno all’estero, «noi attrarremo immigrati con professionalità inferiori, badanti al nero, braccianti agricoli sfruttati o manovali».
Senza alternativa
Detto questo, secondo le inesorabili leggi della demografia l’apporto di nuovi giovani non basterà alla Germania (e non basterebbe neanche per noi, va da sé) per arrestare in modo efficace lo sbilanciamento demografico. «È impossibile pensare che all’invecchiamento si possa rispondere esclusivamente attraverso più immigrazione, a meno di muovere flussi migratori tali da essere ingestibili anche per Paesi ricchi», chiarisce Alessandro Rosina. C’è un impatto nell’immediato; ma i nuovi arrivati cominciano anche loro ad invecchiare. E dal punto di vista della natalità dopo due generazioni anche gli immigrati tendono a convergere sulla media della popolazione autoctona».
Insomma, il gap tra noi e il resto d’Europa e del «Primo Mondo» si restringerebbe, ma non si chiuderebbe. Servirebbe per forza un aumento della natalità.

Corriere 11.9.15
La svolta di Angela Merkel
L’intuizione che arriva solo dai veri leader
di Paolo Franchi

Epocale. L’uso e, soprattutto, lo sfrenato abuso di questo aggettivo-passepartout sono finalmente sotto il tiro della critica. È difficile contestare, però, che la storica svolta di Angela Merkel sia il frutto dell’intuizione lucida non tanto dell’emergenza, quanto piuttosto dell’inevitabile e non indolore passaggio d’epoca che l’ondata dei rifugiati e dei migranti segnala per la Germania e per l’Europa. La condividano o meno, i sostenitori della politica ridotta a ordinaria amministrazione che ci hanno asfissiato nell’ultimo ventennio dovrebbero prenderne atto. Di simili intuizioni, con tutto l’inaudito carico di responsabilità e di rischi che comporta il tentativo di tradurle in azione di governo, sono capaci soltanto leader politici veri: non i tecnocrati, non i comunicatori, non la cosiddetta società civile, non i capipopolo. E nel desolato panorama europeo la signora Merkel è, nel bene e nel male, l’unico leader politico vero.
La cancelliera viene «dal freddo», non dal nulla. In fondo, era cristiano-democratica, come si poteva esserlo nella Germania dell’Est, fin dai tempi lontani dell’appartenenza alla Fdj, l’organizzazione giovanile della Sed. E si è guadagnata sul campo la leadership della Cdu: non la principale forza della destra europea, come pure si legge, ma (fino al 1992 assieme alla Dc italiana) il più grande partito popolare d’Europa. È anche questa storia — una storia che ha consentito in passato alla Cdu di essere protagonista della costruzione del capitalismo sociale di mercato tedesco e del modello europeo di Welfare — che Angela Merkel cerca di re-inverare (o di re-inventare), liberandola dagli orpelli del passato ma mantenendone l’ispirazione di fondo, in condizioni inedite, sconvolgenti, imprevedibili per i suoi predecessori.
Se è proprio di destra, o di centrodestra, o di moderati, che bisogna parlare, ebbene questo campo, in Europa, la Merkel lo ridisegna, mettendo in conto rotture, divisioni, resistenze. Non può giurare sul buon esito della sua svolta, e nemmeno sulla possibilità di governarla fino in fondo. Pensa però, e a ragione, che alzando muri non soltanto si perde la faccia, ma si sbatte la testa.
Si ironizza su un’Italia politicamente capovolta, in cui la destra che sino a ieri inneggiava alla Merkel ora la dipinge come un’egoista mascherata da benefattrice che si preoccupa solo di procurarsi forza lavoro qualificata a buon mercato e di contrastare il calo demografico tedesco, e la sinistra che, dopo averla rappresentata come la reincarnazione della volontà di potenza (per non dire di sopraffazione) tedesca, adesso ne esalta commossa la sollecitudine materna verso i dannati della terra. Ne ha detto benissimo Pierluigi Battista: chi scrive ha da aggiungere solo due considerazioni a margine. La prima. È vero, con la pallidissima eccezione di Parigi, e quella, tutta da verificare, di Atene, la sinistra non è al governo in nessuna capitale importante. Ma ci deve essere qualche motivo se, mentre i partiti socialdemocratici annacquano ogni giorno il loro vino, è una cristiano-democratica (una democristiana?) che guida il Paese incommensurabilmente più forte dell’Unione a giocare la carta dell’inclusione, prendendosi il plauso di Yoshka Fisher per la sua capacità di «socialdemocratizzare» la Cdu. Urge riflessione identitaria, e probabilmente molto di più. La seconda. In Europa cambia, o può cambiare, il passo della storia, si ridislocano le grandi forze in campo. Da noi, dopo vent’anni consumati nella contrapposizione tra berlusconismo e antiberlusconismo (che è cosa diversa da quella tra destra e sinistra), al centro del confronto e dello scontro, intemerate di Matteo Salvini e Beppe Grillo a parte, c’è l’articolo 2 della riforma del Senato. Non sarà che di grande politica avremmo molto bisogno anche noi?

il manifesto 11.9.15
Gabriel (Spd) svela l’arcano
«I rifugiati ci servono come manodopera»
di Jacopo Rosatelli

«Se riusciamo a integrare in fretta i profughi nel mondo del lavoro, risolviamo uno dei maggiori problemi per il futuro economico del nostro paese: la mancanza di personale qualificato». Nelle parole del vicecancelliere e ministro dell’Industria Sigmar Gabriel, pronunciate ieri di fronte al Bundestag, c’è l’importante risvolto economico dell’accoglienza dei richiedenti asilo: i migranti possono fornire alla Germania quei circa 6 milioni di lavoratori che mancheranno entro il 2030. La popolazione invecchia, il tasso di natalità è basso, e senza il contributo della persone che arrivano “da fuori”, «è in pericolo non solo il sistema delle imprese, ma anche il benessere generale della società», sostiene il leader del partito socialdemocratico.
A preoccupare sono, in particolare, le proiezioni sulla parte orientale del Paese: tra quindici anni nei Länder della ex Repubblica democratica tedesca un terzo degli abitanti sarà oltre i 64 anni, contro l’attuale 24%. Nel 2060 la popolazione complessiva dell’Est si sarà ridotta di un quarto rispetto ad oggi: da 12,5 a 8,7 milioni. All’Ovest le variazioni sono inferiori, ma il trend è lo stesso: più anziani in una popolazione che nel suo insieme decresce. Risultato: se oggi il 66% dei tedeschi è in età da lavoro, tra vent’anni lo sarà soltanto il 58%. L’istituto dell’economia tedesca (Institut der deutschen Wirtschaft), centro di ricerche di area confindustriale con sede a Colonia, calcola che già nel prossimo decennio potrebbero mancare al sistema produttivo fino a 390mila ingegneri.
Il ministro dell’Industria Gabriel prende sul serio questi rischi e si erge a paladino del matrimonio d’interessi fra richiedenti asilo e datori di lavoro. Quella del leader Spd è una posizione pragmatica, di buon senso, che contribuisce a favorire il clima di accoglienza. Concentrandosi sull’«utilità» dei profughi per l’economia tedesca, però, Gabriel perde di vista un elemento fondamentale: i siriani che in questi giorni arrivano nel suo paese sono persone che fuggono da una guerra. E la Germania è fra i maggiori esportatori mondiali di armi: nella prima metà di quest’anno il volume d’affari è di circa 6,5 miliardi. Lo ha ricordato, ieri nell’aula del Bundestag, Roland Claus della Linke, che ha sottolineato come l’export di armi sia autorizzato dal ministero che guida lo stesso Gabriel: «C’è un modo per contrastare davvero le cause delle fughe di massa, e cioè negare quelle autorizzazioni».
Anche la capogruppo in pectore della Linke, Sahra Wagenknecht, allarga lo sguardo: «Perché nessuno dice il motivo che costringe le persone a lasciare la propria terra? In Medioriente non c’è alcuna catastrofe naturale: all’origine dell’esodo c’è una politica di guerra e destabilizzazione di cui sono responsabili la Germania, l’Europa e soprattutto gli Stati Uniti». Le risorse per l’emergenza andrebbero dunque chieste anche a Washington: «Mi piacerebbe che il governo tedesco avesse il coraggio di farlo», afferma Wagenknecht. Assai improbabile che Angela Merkel ascolti il consiglio dell’esponente dell’opposizione. Piuttosto la cancelliera, che ieri ha visitato un centro di accoglienza a Berlino e si è concessa anche per qualche selfie, continua nella sua «operazione-ottimismo» all’insegna dello slogan «la Germania ce la farà». Incurante delle grida d’allarme che si levano da più parti: i 6 miliardi messi a disposizione dal governo federale sono troppo pochi.

il manifesto 11.9.15
Ue, ognuno va per conto suo
Divisa su come accogliere i profughi, l’Europa si prepara al vertice di lunedì
La presidenza lussemburghese spinge su rimpatri e immediata ricollocazione dei profughi e valuta una possibile flessibilità del patto di stabilità
di Carlo Lania

Solo dieci giorni fa parlando del modo in cui gli Stati europei affrontano l’emergenza profughi, il commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muizniesks ha definito «isteriche» le risposte date dai vari governi alla crisi. Viste le cose accadute solo ieri, Muizniesks aveva ragione. Nell’ordine: la Danimarca ha riaperto i collegamenti ferroviari con la Germania che aveva bloccato mercoledì a tempo indeterminato. Nel frattempo però l’Austria ha fermato i treni da e per l’Ungheria, scelta spiegata da Vienna come una conseguenza del «sovraccarico» di migranti in arrivo da quel paese. A sera invece la Macedonia ha annunciato di voler costruire anche lei un muro, questa volta al confine con la Grecia, non escludendo la possibilità di schierare anche l’esercito. Con il rischio di provocare una crisi con Atene che va ben oltre quella riguardante i profughi. Infine la Polonia, Paese leader del blocco «no profughi» fino a ieri mattina, sarebbe invece pronta ad accettare il meccanismo delle quote proposto dal presidente della Commissione Ue Jean Claude Juncker, meccanismo che sempre ieri la Romania ha invece detto di voler rifiutare. Se questa non è isteria, di certo è il segno inequivocabile di come ognuno vada per conto suo.
In questo clima ieri il parlamento europeo ha approvato il piano presentato da Juncker e si prepara al vertice dei ministri degli Interni di lunedì, primo vero scoglio all’avvio della distribuzione dei profughi. A Bruxelles circola una bozza della nota che la presidenza di turno lussemburghese presenterà al vertice e basata essenzialmente su due punti: rimpatri dei migranti non riconosciuti come aventi diritto all’asilo, e avvio della divisione dei primi 40 mila profughi arrivati in Grecia e Italia dal 15 agosto scorso. Non è esclusa anche la possibilità di valutare una flessibilità del patto di stabilità per i Paesi che hanno sostenuto le spese per rifugiati e migranti.
La questione dei rimpatri, che preoccupa non poco le organizzazioni che si occupano di migranti, punta soprattutto sul ruolo svolto da Frontex. Viene proposta la creazione «immediata di un ufficio europeo per i rimpatri» senza escludere la possibilità di creare nei paesi maggiormente coinvolti dagli sbarchi e insieme all’Ufficio europeo per l’asilo, centri di accoglienza co-finanziati dal budget europeo dove esaminare le richieste di asilo.
C’è poi la questione ricollocamenti. Se il consiglio del 14 approverà il piano, potrebbero essere avviati già dal 16 settembre e riguarderanno 24 mila profughi sbarcati in Italia e 16 mila in Grecia. Gli Stati membri «devono cominciare subito a ricollocare» si legge nella bozza, nella quale però si sollecita ancora una volta Italia e Grecia ad aprire gli hotspot: «Priorità va alle infrastrutture per le identificazioni, registrazioni, raccolta impronte». Per i richiedenti asilo devono essere avviate «subito le procedure», è scritto ancora, mentre le registrazioni dei migranti devono essere collegate a «efficaci politiche di rimpatri».
Da notare che per ora si parla di soli 40 mila profughi (cifra ridotta a luglio a 32.256 per le resistenze di alcuni Paesi), e non si fa invece parola degli ulteriori 120 mila previsti da Juncker. Silenzio anche sull’intenzione di rendere il meccanismo dei ricollocamenti obbligatorio. Tutti argomenti su cui la divisioni all’interno della Ue sono pesanti e di cui si parlerà sicuramente oggi a Praga, dove è previsto un vertice dei Paesi del gruppo Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia) al quale parteciperanno anche il ministro lussemburghese Jean Asselborn, in qualità di rappresentante della presidenza di turno, e il ministro tedesco Frank-Walter Steinmeier. Se sono vere le indiscrezioni circolate ieri, che danno la Polonia disponibile ad accettare il meccanismo delle quote, anche il gruppo di Visegrad avrebbe perso l’unità mostrata finora. Intanto qualcosa si muove oltreoceano con gli Stati uniti che annunciano di voler prendere diecimila profughi siriani.

La Stampa 11.9.15
Le frontiere e la corsa all’indietro
di Roberto Toscano

L’Europa riscopre le frontiere. Frontiere da chiudere, da pattugliare con la polizia e se necessario l’esercito. Per tenere fuori gli indesiderati, per fermare un flusso umano percepito come minaccioso e incontrollabile. E se è poco sorprendente che lo faccia l’Ungheria, con il suo governo nazionalista e xenofobo, colpisce che anche la civilissima Austria e l’evoluta Danimarca stiano applicando misure di controllo e blocco che da tempo non si erano viste.
Che cosa sta succedendo? I migranti, certo, ma non solo. Ci piacerebbe poter attribuire il fenomeno a un solo fattore: l’emergenza migranti, un’emergenza che forse, grazie soprattutto alla coraggiosa svolta di Angela Merkel, in qualche modo riusciremo a gestire.
In realtà la riscoperta delle frontiere si spiega con qualcosa di più ampio, più profondo e anche più preoccupante.
Essa è il prodotto di una catena di sconfitte e soprattutto del fallimento di quella che si era sperato potesse essere una positiva evoluzione epocale nelle relazioni internazionali.
Vi ricordate i «dividendi della pace» attesi alla fine della Guerra Fredda? E l’impegno per gli «interventi umanitari» contro genocidi e repressioni? E che dire della «Primavera araba», quando si era creduto che un’inarrestabile ondata di democrazia spazzasse via, in tutto il Medio Oriente, sia dittatori che terroristi?
Troppo facile dire ora che si trattava solo di illusioni. Erano progetti degni in sé di essere perseguiti, ma che sono falliti per una serie di micidiali errori. Sarebbe poi ingiustificato sostenere che realismo significhi solo accettare lo status quo e le sue brutture sociali e morali, tanto più che, in un mondo che cambia a ritmi vertiginosi, l’idea che lo status quo possa essere protratto indefinitamente è la più patetica delle illusioni.
Quello che è oggi indiscutibile è che la fine del XX secolo e l’inizio del XXI sono segnati, assieme al fallimento di quelle speranze, da una serie di crisi e destabilizzazioni che producono sconcerto e paura.
La cosiddetta «comunità internazionale» rivela sempre più la sua inconsistenza di fronte a problemi e minacce che si sommano invece di alternarsi in una sequenza.
E’ vero che, vista l’innegabile natura globale dei problemi, solo una risposta globale può avere un senso. Ma se la risposta non arriva, se la risposta è solo retorica, è inevitabile che si scateni una corsa all’indietro: verso la chiusura, le frontiere, le identità antagoniste, la caduta della solidarietà. Chiamarsi fuori, salvarsi da soli.
Quando si avvicina il lupo, il porcellino saggio si chiude nella sua casa di pietra.
Inoltre lo Stato-nazione è palesemente inadeguato, ma rimane l’unico vero contesto in cui la volontà dei cittadini possa tradursi in decisioni politiche. Nel momento quindi in cui non possiamo se non denunciare le chiusure, gli egoismi e l’irreale progetto di ricostituire una sovranità non solo storicamente superata, ma insostenibile, siamo però obbligati a fornire, in alternativa concreta a un’inquietante regressione, una credibile ipotesi di avanzamento.
Si rivela qui tutta la pochezza di una classe politica che, prese le distanze non solo delle ideologie, ma dagli ideali, ovunque naviga a vista senza progettualità e con un orizzonte a breve che coincide con le scadenze elettorali.
E’ ormai evidente che l’attuale crisi dei rifugiati costituisce un cruciale terreno di prova dello stesso futuro dell’Europa, ed è proprio l’attuale traumatico ritorno delle frontiere a dimostrarlo. Il progetto europeo è nato non per abolire le frontiere in un poco possibile e poco auspicabile Super-Stato, ma per trasformarle da muri di divisione in punti di contatto permeabili sia per il commercio che per le finanze che per le persone. L’estate del 2015 sarà ricordata come quella di una doppia sfida: la sfida all’euro in relazione alla crisi greca e quella a Schengen prodotta dalla crisi dei rifugiati. Non è ancora chiaro se la risposta ad entrambe le sfide si rivelerà adeguata e soprattutto compatibile con il progetto europeo.
Va detto comunque che, se avanzare nel processo di integrazione ed apertura è problematico, l’ipotesi opposta – quella della chiusura, della ri-nazionalizzazione e dell’assoluta sovranità nazionale – è illusoria.
Inoltre, se la frontiera recupera il suo valore di baluardo e barriera, diventerà sempre più importante, anzi vitale, definire o ridefinire il suo tracciato. Se tutto dipende dalla sovranità territoriale, allora dobbiamo prepararci all’aumento dei progetti di revisione territoriale e anche di frammentazione degli Stati esistenti.
Ma dove si ferma la chiusura, la caduta della solidarietà, la ricerca di omogeneità culturale e sociale?
Si parla spesso, per il Medio Oriente e per l’Africa, di «frontiere artificiali». Dato che non esistono «frontiere naturali» ma solo politiche, non si vede come evitare che le singole regioni cerchino, di fronte alle crisi e alle paure collettive, di distinguersi e di costituirsi in entità politiche separate all’interno di propri confini.
Se l’Europa si dimostrerà incapace di gestire fenomeni come le migrazioni, ma anche il terrorismo, i problemi dell’economia e quelli dell’ambiente – il pericolo che il suo processo integrativo non solo si blocchi, ma si inverta è purtroppo del tutto reale.

il manifesto 11.9.15
Italia/Ue
Ridisegnare le città dell’accoglienza
Altro che Cie: il flusso di profughi è destinato a modificare l’assetto urbano europeo
di Alberto Ziparo

Quanto sta finalmente succedendo — sia pure con molte difficoltà e contraddizioni — sul fronte delle migrazioni verso l’Europa, la ancora incerta «svolta», spinge a considerare dinamiche e processi in atto non tanto come emergenze contingenti, ma quali fenomeni di fase destinati a segnare e probabilmente a trasformare strutturalmente l’organizzazione sociale e ambientale europea e occidentale. È il caso forse di assumere che l’enorme flusso di immigrazione dai sud del mondo è destinato in tutto o in parte a caratterizzare, connotare, i futuri assetti delle città e dei sistemi insediativi del Vecchio Continente, e non solo.
Tra coloro che «stanno arrivando» ci sono certamente i futuri italiani, francesi, tedeschi, spagnoli ecc., che costituiranno una componente rilevante, al pari degli altri che, con mobilità crescente, sono destinati a trascorrere periodi più o meno lunghi, ma contingenti, nella nostra penisola come in altri paesi, in attesa di destinazioni diverse, anche extraeuropee; o di possibili «ritorni a casa». Pure oggi così difficili da intravedere.
È allora il caso che si pensi alla chiusura — abbandono definitivo — delle strutture di accoglienza temporanee: le tristi sigle di questi anni, CIE, CAT, CAE, CDT, ecc.; e si assuma l’accoglienza come tema foriero di meccanismi funzionali ad una nuova domanda aggiuntiva di cittadinanza, di abitanza. Che può contribuire ad orientare i nuovi programmi di riuso e di rigenerazione urbana, quanto mai necessari; al di là dell’arrivo dei migranti (per cui in ogni caso nel breve periodo appare inutile la distinzione tra le varie tipologie di migrazione).
Va tenuto conto in questo quadro che su tale terreno, la situazione delle strutture è, almeno quantitativamente, assai meno drammatica di quanto ogni giorno ci prospetta la vulgata politica e mediatica. Anzi tale tipo di domanda aggiuntiva può fornire senso ed utilità sociale ad un’offerta esuberante da iperproduzione edilizia che, non solo nel clamoroso caso italiano, costituisce un monumento allo spreco economico e ambientale, vista l’enorme realizzazione di case (spesso vuote) e di cemento che ha contraddistinto le ultime fasi. Il vuoto o sottoutilizzato non interessa solo le città italiane o dell’Europa occidentale: per citare solo casi molto noti, i comparti deserti nelle città dell’Europa orientale (quella dei nuovi muri) assomigliano ai centri interni collinari e montani italiani; per dieci mesi all’anno la Costa del Sol, come quelle siciliane e calabresi, presenta centinaia di migliaia di case e villette vuote; in molte sub regioni del continente i centri rurali sono stati svuotati dal gigantismo della città diffusa. I dati relativi al nostro paese ci forniscono un patrimonio edilizio impressionante quanto sovrabbondante, in cui un decimo degli edifici ed un quarto degli alloggi esistenti sono vuoti o sottoutilizzati. Le dimensioni del fenomeno sono tali per cui oggi è consistente il rapporto abitanti/edificio, laddove ieri si contavano gli abitanti/alloggio e ancora prima l’abitante/stanza.
Nelle metropoli le stanze vuote di contano a centinaia di migliaia; nelle città medio-grandi a decine di migliaia. Ma anche i piccoli comuni sono segnati da palazzine e ville vuote o semiabbandonate, una circostanza che caratterizza molti centri interni. Certo va considerato che la gran parte di questo patrimonio – più dell’80% — è privato. E specie negli ultimi anni à stato costruito non per rispondere alla domanda sociale né alle dinamiche economiche del settore, ma soprattutto per realizzare le basi di meccanismi di speculazione finanziaria; ovvero per riciclare capitali illegali. La riprova è fornita dalla presenza di aree di forte disagio abitativo locale, a fronte di una domanda inevasa totale nazionale pari a poco più del 10% dell’offerta inutilizzata (circa 850 mila nuclei, per lo più monofamiliari, a fronte di circa 8 milioni di alloggi vuoti o sottoutilizzati).
Ricerche come Riutilizziamo l’Italia, condotta dal Wwf insieme a diverse università, o gli «Osservatori» della Società dei Territorialisti illustrano, oltre all’urgentissima esigenza di messa in sicurezza del territorio, quella di rigenerare e riusare la città a partire dal blocco del consumo di suolo e dal riuso dell’enorme mole di vuoto o inutilizzato; nonché dalla domanda di riqualificazione ecopaesagistica e di valorizzazione del patrimonio storico culturale presente.
Queste elaborazioni hanno colto come l’innovazione sociale –oltre che tecnologica– espressa da nuove soggettività, stia contribuendo a riqualificare i luoghi delle città a partire dalla particolarità delle istanze espresse in tali situazioni urbane:si pensi ai processi di riciclo e ristrutturazione «leggera» promossi da associazionismi artistici e culturali o alle stesse «occupazioni spontanee» come segnalazione di forte disagio sociale e di soluzione «diretta» dei problemi. A questi temi utili al ridisegno ecologico e socialmente innovativo della città — che ritessono tessuti urbani in sparizione– si può aggiungere oggi l’accoglienza; da assumere anche come nuova ricchezza rappresentata dalle culture espresse dalle molte, diverse, soggettività provenienti dall’esterno.
Si impone però per questo l’esigenza di politiche urbane differenti dal passato e autenticamente innovative; che le istituzioni attuali, incrostate e spesso dominate da interessi speculativi, che aggravano sovente una sistematica riluttanza all’innovazione, difficilmente possono proporre.
Questo tipo di azione può muovere dal censimento del patrimonio vuoto o inutilizzato di ciascun comune: un dato di cui spesso l’amministrazione è ben consapevole o che può facilmente e rapidamente acquisire. Da questo e dalle più evidenti emergenze di riqualificazione urbanistica può muovere un efficace e utile «Piano casa sociale», che integra appunto rigenerazione urbana e accoglienza. Anzi ne è connotato. È necessaria l’azione dal basso, di comitati e associazioni, perché si diffondano i pochi esempi virtuosi esistenti (vedi il comune di Riace in Calabria), di capacità di acquisizione del patrimonio vuoto anche privato, e del suo riutilizzo anche con opzioni di «comodato d’uso di pubblica utilità», perché nella nuova qualità ecologica e civile delle nostre città, oltre alla risposta a bisogni già emersi, non può mancare la ricerca di soddisfacimento delle domande dei «nuovi abitanti».

La Stampa 11.9.15
La rischiosa partita di Putin
di Anna Zafesova

«Convogli umanitari» accompagnati da uomini in uniforme e carichi di armi, militari russi che postano su Facebook i selfie scattati in Medio Oriente, segnalazioni di spostamenti di truppe e armamenti: i sintomi della «guerra ibrida» già vista un anno fa nell’Est dell’Ucraina ora si manifestano in Siria. Con una differenza: stavolta Mosca non nega la sua presenza militare, insistendo però che si tratta solo di «consulenza» e non di coinvolgimento bellico diretto. Affermazioni probabilmente non molto lontane dalla verità: la «guerra ibrida», a molti sembrata una novità nel Donbass, è in realtà una vecchia e consolidata tattica del Cremlino, collaudata già in Corea e poi applicata in tutte le «guerre per procura», dal Vietnam al Mozambico. Consiglieri militari, armamenti e qualche intervento diretto di reparti scelti in uniforme dell’esercito locale: una ricetta classica, il massimo del resto che Mosca può concedersi.
La novità è che Vladimir Putin ha lanciato una rischiosa partita in proprio, inserendosi come «terza forza» senza aspettare la formazione della coalizione internazionale anti-Isis, auspicata da tutte le parti, e invocata solo pochi giorni fa anche dal presidente russo. Il ministro degli Esteri Serghey Lavrov ha però fatto capire che i russi hanno in mente una compagine piuttosto diversa di questo fronte, e Putin ha lavorato per tutta l’estate per un’alleanza militare di siriani, iracheni, egiziani e curdi, con qualche apertura anche ai Paesi arabi del Golfo, e molto probabilmente l’appoggio dell’Iran, forte dell’accordo sul nucleare che Mosca ha contribuito a raggiungere riconquistandosi un ruolo di primo piano nella diplomazia internazionale. E Putin è disposto a fare il bis con Damasco: qualche giorno fa si è fatto portavoce della disponibilità del suo alleato siriano a condividere parte del governo con l’opposizione, forse nella speranza che di fronte all’avanzata dell’Isis l’Occidente cambi idea e accetti Assad come male minore.
Dall’inizio della crisi siriana, per l’Occidente Assad era il problema, per il Cremlino la soluzione, e la diplomazia russa è sempre stata finalizzata alla conservazione del suo regime, ultimo alleato storico di Mosca nell’area. Anche oggi il portavoce di Putin sottolinea che gli aiuti militari sono diretti all’esercito siriano come «unica forza in grado di contrastare l’Isis». Perché Putin è disposto ad allearsi con l’Occidente nella battaglia contro la jihad, della quale si è sempre dichiarato il primo protagonista già dal 1999 con la Cecenia, e che ha prodotto anche l’alleanza con gli Usa di George W. Bush dopo le Due Torri. Ma si oppone a una coalizione in nome del «regime change». La disastrosa situazione di quel che resta del regime siriano fa presupporre ad alcuni analisti russi che i movimenti militari a Latakia e Tartus servano essenzialmente ad aiutare Assad a creare una roccaforte alawita in Siria se il resto del Paese cadesse in mano agli islamisti, o nel peggiore dei casi a garantire una via di fuga al presidente. Scontentando così sia l’Isis che gli Usa.

il manifesto 11.9.15
I soldati di Mosca costringeranno gli Usa a dialogare
Siria. I fronti pro e anti-Damasco si riposizionano secondo i nuovi equilibri di forza. Che le truppe russe siano o meno dispiegate, Putin manda un messaggio chiaro: è il tempo del compromesso. L'Europa si spacca
di Chiara Cruciati

Più che un braccio di ferro sul tavolo siriano si gioca una partita a scacchi, fatta di indiscrezioni, smentite, velate minacce. Ma l’improvvisa escalation della tensione militare potrebbe segnare il destino di un paese disastrato e di un presidente, Assad, che rientra dalla finestra. Un destino dal vago sapore novecentesco: Occidente e Russia gestiscono la partita, affiancati dai rispettivi alleati regionali.
Dopo giorni di accuse da parte degli Stati uniti, secondo cui Mosca starebbe costruendo una base aerea a Latakia (in aggiunta a quella già esistente di Tartous, la sola russa nel Mediterraneo) e avrebbe inviato unità da combattimento, ieri fonti libanesi hanno detto alla Reuters che, sì, i russi partecipano già alle operazioni militari e apriranno due basi nel paese. Notizie che fanno tremare i polsi al presidente Obama e al segretario di Stato Kerry, che continua a chiamare il Cremlino per chiedere spiegazioni. Che puntualmente non arrivano: Mosca insiste che i propri consiglieri militari non imbracciano le armi. Anche Hezbollah è intervenuto: Abu Zalem, responsabile militare, ha ribadito che si tratta solo di esperti perché «in Siria non abbiamo bisogno di truppe, ma di strateghi».
Quello a cui assistiamo è una fase preparatoria: i due fronti, il pro e l’anti-Assad, consapevoli che la situazione è ben diversa – in termini di equilibri di forza – da quella del 2011, si riposizionano in vista dello scontro. Che non sarà bellico, guerreggiato. Improbabile che Obama, in scadenza di mandato, rivoluzioni la sua politica del “nessun stivale sul terreno”. Com’è improbabile che il suo successore, che sia democratico o repubblicano, opti per inviare i marines con un’opinione pubblica contraria a ripetere disastrose esperienze come quella irachena o afgana.
A cosa serviranno dunque i soldati di Putin, che siano dispiegati davvero oppure no? A costringere gli Usa al compromesso, con un messaggio chiaro: senza il sì della Russia e la tutela dei suoi interessi nessuna transizione politica potrà reggere. Il messaggio giungerà con la guerra a Isis, al Nusra e gruppi satellite: i jet di Mosca colpiranno nelle zone che la coalizione – per “coerenza” – non colpisce, dove ufficialmente a governare è Assad: Latakia, Palmira, Homs, Damasco.
Frenata l’avanzata del conflitto, si aprirebbero le porte del negoziato tra l’attuale governo e le opposizioni moderate per la creazione di un esecutivo di unità. E Assad? Forse alla fine sarà costretto a farsi da parte, ma solo se sostituito da un diretto rappresentante che rassicuri l’asse sciita Hezbollah-Iran, alleato russo, e non metta in pericolo l’influenza di Teheran nel paese. Gli Stati uniti e la lunga schiera di alleati, dall’Europa al Golfo, salverebbero la faccia facendosi scudo dietro la presenza di quelle evanescenti opposizioni considerate uniche rappresentanti del popolo siriano.
Le prime fratture, le prime defezioni, nel granitico fronte occidentale si vedono già: l’Europa, mai credibile nella gestione della crisi siriana, si sta spaccando tra chi vuole bombardamenti a tappeto e chi ritiene necessario aprire ad Assad. Mentre il segretario della Nato Stotenberg si dice preoccupato della crescente attività militare russa in Siria e la Francia ribadisce che allontanerà una soluzione politica, la stessa Gran Bretagna (dopo aver annunciato il via alle operazioni militari) ieri ammorbidava le posizioni. «Non stiamo dicendo che Assad debba andarsene il primo gionro – ha detto il segretario agli Esteri Hammond – Sono pronto a discutere la posizione russa e iraniana: dobbiamo muoverci verso le elezioni e allora saranno i siriani a decidere se Assad dovrà restare presidente». Per cui, ha aggiunto, che resti per sei mesi come mezzo di transizione, poi si vedrà (proposta rigettata in un’intervista al The Guardian da Damasco che ripete che le elezioni di un anno fa si sono chiuse con la vittoria dell’attuale presidente).
Musica simile da Roma, Berlino, Madrid e Vienna: il ministro degli Esteri spagnolo José Manuel Garcia Margallo ha chiaramente indicato nei «negoziati con Assad» la soluzione al conflitto (e quindi, pensano le cancellerie europee, all’emergenza rifugiati), mentre l’austriaco Kurz parla di «approccio pragmatico che coinvolga Assad».
L’Iran, da parte sua, forte dell’accordo sul nucleare e della nuova veste di mediatore regionale, non ha mai nascosto l’intenzione di lanciare un dialogo serio, mettendo sul tavolo Onu piani di pace a cui partecipino le opposizioni. Resta il Golfo, oggi quasi silente sulla questione siriana, risucchiato dalla terribile operazione per il controllo dello Yemen. Il grande finanziatore della guerra civile siriana e dell’avanzata islamista andrà ridimensionato attraverso reali controlli sul flusso di denaro fagogitato dalle casse islamiste.

il manifesto 11.9.15
I russi in Siria complicano i piani militari di Israele
«L'ingresso della Russia nella scena siriana cambia le regole del gioco», scrive Amos Harel, analista di Haaretz
Israele si prepara a fare i conti con la presenza militare di Mosca in appoggio al presidente Bashar Assad che limiterà il dominio dei cieli della sua aviazione
di Michele Giorgio

GERUSALEMME A inizio settimana il quotidiano libanese al Akhbar aveva salutato con favore il maggior coinvolgimento militare della Russia a sostegno del presidente Bashar Assad e delle forze governative siriane in affanno contro la galassia di formazioni jihadiste e qaediste — dall’Isis ad al Qaeda (al Nusra) — ben armate e finanziate dalle generose donazioni che arrivano dai Paesi del Golfo. Secondo il quotidiano, l’intervento militare di Mosca impedirà o almeno ostacolerà futuri attacchi aerei israeliani in Siria e invia un segnale preciso al leader turco Erdogan, nemico giurato di Assad. Al Akhbar vola troppo alto, immagina una Russia decisa in Siria ad opporsi anche militarmente allo Stato di Israele, dal quale, peraltro, ha appena comprato una decina di droni per tenere sotto controllo la frontiera con l’Ucraina. Allo stesso tempo è evidente che, come ha scritto Amos Harel, autorevole analista militare del quotidiano israeliano Haaretz, «L’ingresso della Russia nella scena siriana cambia le regole del gioco».
Le missioni dei caccia russi nei cieli della Siria, ha spiegato Harel, automaticamente pongono dei «vincoli» alla libertà di azione dei jet da combattimento israeliani. Di fronte a ciò, indica l’analista, Israele dovrà in qualche modo adeguarsi alla nuova situazione e modificare in parte la sua strategia. Restrizioni alla libertà di movimento dell’aviazione israeliana sono previsti anche dal quotidiano Yediot Ahronot. Saranno richieste nuove “regole d’ingaggio” ha lasciato intendere Ram Ben-Barak, direttore generale del ministero dell’intelligence di Israele, mentre Amos Gilad, un consigliere del ministro della difesa Moshe Yaalon, sostiene che è troppo presto per parlare di «ostacoli» alle operazioni in Siria delle forze aeree israeliane. Da parte sua Amos Yadlin, ex capo dell’intelligence militare, esclude che le due parti andranno in rotta di collisione. Faranno in modo di «non incontrarsi», ha commentato ricordando che Mosca e Tel Aviv non sono nemiche.
Gli israeliani gettano acqua sul fuoco, ridimensionano i riflessi dell’intervento russo in Siria, almeno per ciò che riguarda gli interessi dello Stato ebraico. Ed escludono che i caccia russi si spingeranno verso il sud della Siria, dove Israele concentra buona parte dei suoi attacchi contro l’esercito siriano e i combattenti di Hezbollah. Sanno però che dovranno fare i conti con una situazione nuova, che complica, e non poco, i loro piani militari a sostegno, ormai evidente, delle milizie islamiste radicali – quelle che in Occidente descrivono ancora come “ribelli moderati” — che operano nel sud della Siria e a ridosso del Golan. Israele già offre assistenza medica a questi “guerriglieri della libertà” con i quali, secondo un rapporto degli osservatori dell’Onu, mantiene contatti più o meno regolari.
Da quando è cominciata la guerra civile siriana l’aviazione con la stella di Davide ha avuto il completo dominio dei cieli e compiuto frequenti attacchi nel Golan e lungo la frontiera tra Libano e Siria, ma anche vicino Damasco. Ufficialmente per bloccare convogli con armi sofisticate e razzi destinati a Hezbollah e per impedire che il sud della Siria, in particolare la fascia di territorio a ridosso del Golan, si trasformi, sempre secondo Tel Aviv, in un “avamposto iraniano” per osservare lo Stato ebraico e attaccarlo. Tuttavia, osservando sulla cartina gli obiettivi colpiti negli ultimi mesi dai bombardieri israeliani, i raid non paiono più indirizzati a bloccare i presunti convogli di armi. Piuttosto danno una mano alle formazioni armate che combattono contro l’esercito siriano impegnato, assieme agli alleati di Hezbollah, a riprendere il controllo del Qalamoun, di Zabadani e del confine con il Libano, un’area strategica alla quale Damasco non può rinunciare se vuole garantirsi la sopravvivenza.

il manifesto 11.9.15
Europarlamento approva etichettatura diversa per le merci delle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati da quelle per le merci provenienti da Israele

Con 525 voti a favore, 70 contrari e 31 astenuti, ieri il Parlamento europeo ha approvato una mozione che appoggia l’introduzione di etichette differenti per le merci importate provenienti da Israele e per quelle prodotte nelle colonie ebraiche nei Territori palestinesi occupati e nelle Alture del Golan (Siria).
Il consumatore europeo avrà modo di sapere se un prodotto israeliano che sta acquistando arriva dalle colonie costruite illegamente in Cisgiordania, a Gerusalemme Est e nel Golan.
Il ministero degli esteri israeliano ha reagito con stizza e ha accusato l’Europa di discriminare tra israeliani e di voler imporre una sua soluzione politica. Intanto ieri sera si attendeva al Palazzo di Vetro di New York l’esito del voto che permetterà alla Palestina, Stato osservatore non membro, di sventolare la sua bandiera davanti alla sede delle Nazioni Unite.

Repubblica 11.9.15
L’Amaca
di Michele Serra

Triste, per gli uomini liberi, la notizia che gli ebrei ortodossi di Israele (circa il dieci per cento della popolazione) sono riusciti a imporre la chiusura dei negozi e la sospensione delle partite di calcio per shabbat (sabato). Ci sono due condizioni, entrambe ovvie, che possono e devono regolare il rapporto tra le credenze religiose e la vita civile. La prima condizione è che le comunità religiose devono essere pienamente libere di manifestarsi, organizzarsi, celebrare i loro culti; e nessuna religione perseguitata o discriminata. La seconda è che le credenze religiose non devono interferire nella vita pubblica, che è di tutti, anche degli atei, e non può essere soggiogata a usanze di parte, men che meno se spacciate per “volontà di Dio”. C’è una oggettiva violenza nella pretesa di una minoranza zelante di costringere anche chi non crede, o crede diversamente, ad acconciarsi ai suoi tabù. Israele ha fatto un passo in avanti verso una definizione più nettamente confessionale del proprio assetto e della propria immagine. Perché gli israeliani di buona volontà, non importa se “di destra” o “di sinistra”, non rimettano al loro posto gli invadenti, bellicosi, intolleranti ortodossi che tanti problemi creano fuori e dentro il loro Paese, non è semplice da capire. Quello che si capisce bene, invece, è che il prezzo di ogni cedimento ai fanatici lo paga l’intera società.

Corriere 11.9.15
La Catalogna in marcia sfida Madrid «L’ora dell’indipendenza è arrivata»
Oggi un milione in piazza
A fine mese si vota: se Mas supera il 50%, avvierà la secessione
di Sara Gandolfi

BARCELLONA Le bandiere a fasce rosso-oro, con la stella bianca su sfondo blu, sventolano sui balconi del centro. A Barcellona solo la pioggia, che ieri scendeva a dirotto, potrebbe rovinare la Giornata nazionale della Catalogna, la Diada, che commemora la caduta della città in mano alle truppe borboniche l’11 settembre 1714. Sono passati 301 anni, e il riscatto sembra a portata di mano. Dal quartiere Gracia alla Ciutat Veilla, passando dalla Sagrada Familia, opera simbolo del maestro del modernismo catalano Antoni Gaudí, oggi un milione di persone riempirà l’avenida Meridiana innalzando i colori della Repubblica catalana. L’obiettivo di «Ara és l’hora», la piattaforma formata da Anc e Òmnium Cultural, storiche associazioni indipendentiste, è di formare un gigantesco mosaico umano, lungo più di cinque chilometri, fino alla piazza del Parlament de Catalunya. Proprio là, dove, tra poco più di due settimane si giocherà il futuro di questa regione che (forse) vuole davvero farsi Stato.
E’ iniziata stanotte, in scenografica concomitanza con la Diada, la campagna elettorale che potrebbe cambiare volto non solo alla Catalogna ma alla Spagna intera. Il presidente della Generalitat, Artur Mas, convocando le elezioni regionali anticipate per il 27 settembre non ha mai nascosto le sue ambizioni: vuole un voto «plebiscitario», al posto di quel referendum che il governo di Madrid non ha mai concesso. Se la «Junts pel Sí» che lui stesso ha creato con grande equilibrismo politico — lista unitaria tra la sua Convergéncia democratica de Catalunya, partito neo-liberale di centro, e la sinistra di Esquerra repubblicana — conquisterà la maggioranza dei seggi, assicura Mas, inizierà un processo che in 18 mesi porterà alla proclamazione unilaterale dell’indipendenza. Su La Vanguardia , quotidiano di Barcellona, i dettagli della transizione burocratica: si creerà un’agenzia per la previdenza sociale, una banca nazionale, e poi si convertirà l’esistente, convincendo i funzionari che oggi lavorano per l’amministrazione spagnola a integrarsi al nuovo Stato catalano, «conservando tutti i diritti acquisiti».
Sembra una passeggiata, come quella che oggi faranno i partecipanti alla Via Lliure, la «via libera all’indipendenza». Gli ultimi sondaggi preannunciano, però, una vittoria di misura: la somma dei voti di Junts pel Sí e della Cup, altra formazione indipendentista, conquisterebbe tra i 68 e i 69 seggi su un totale di 135. Quindi, proprio sul filo di lana della maggioranza (dei deputati e non dei voti, peraltro, fermi al 44%). Molto staccate, le altre formazioni, che affrontano il voto del «27-S» come un’anticamera delle elezioni generali di dicembre, in tutta Spagna. Ciutadans e Catalunya Sí que es Pot , rielaborazioni locali di Ciudadanos e Podemos , si contendono il secondo posto: una contraria all’indipendenza, l’altra sostenitrice della «libera scelta». Dietro, sempre più in affanno, i partiti storici: il Psoe di Pedro Sánchez che fatica a far decollare la sua «Terza via» e il Partido popular del premier Mariano Rajoy che, ostinato nel suo immobilismo davanti alla «questione catalana», nelle ultime settimane ha chiesto il sostegno dei colleghi europei contro il «virus del divisionismo». È toccato al britannico David Cameron ammonire i catalani: «Se vi separate, dovrete fare la coda per rientrare nell’Unione Europea». Minacce poco credibili per il fronte del Sì, che rifiuta lo spettro di una «Catexit» e da parte sua schiera in questi giorni una sorta di «brigata internazionale» di intellettuali e professori universitari: in maggioranza, guarda un po’, scozzesi, come lo scrittore cult Irvine Welsh (Trainspotting).
Alla fine, a decidere il destino della Catalogna sarà quel 26,1% che ancora non sa cosa votare. Comunque vada, la secessione ha smesso di essere una proposta stravagante, o un sogno romantico. Come sottolinea Joaquim Torra i Pla, presidente di Òmnium Cultural: «Per noi l’indipendenza è uno strumento per essere più competitivi, per avere più risorse, perché il catalano si possa finalmente parlare anche al Parlamento europeo. E ormai sappiamo che ciò potrà avvenire solo se siamo uno Stato».

Repubblica 11.9.15
Le lezioni messicane del Calvino filosofo
Nel trentennale della morte viaggio a Tula, luogo in cui il grande scrittore rinnegò il suo “sguardo da archeologo”sul mondo dei segni: “Interpretare è tradire”
di Massimo Rizzante

Di stanza a Città del Messico per un mese. Abito per un po’ nella Casa Refugio Chitlatépetl, tra Condesa e Hipódromo, quartieri sicuri e ricchi della capitale. Basta uscire in strada e osservare il passo tranquillo dei cani d’alto bordo e dei loro padroni. Dopo qualche giorno decido di andare a Tula, l’antica capitale dei toltechi, un popolo prudente e saggio, il cui regno durò cinque secoli e che fu sempre fedele a Quetzalcóatl, il celebre dio raffigurato come un serpente piumato. Dopo un’ora e mezza di corriera mi trovo di
fronte a una zona archeologica dominata da una grande piramide sopra la quale quattro enormi guerrieri in basalto, gli Atlanti, guardano l’orizzonte. Perché sono salito fin quassù? Per vedere gli Atlanti? Non proprio. Sono qui per rendere onore a Italo Calvino. È morto trent’anni fa. Ho come la sensazione che in Italia sia stato prima postmodernizzato, accusato cioè con frivolezza di tutte le derive di quella stagione che ormai nessuno ricorda più, poi canonizzato, quindi messo nel dimenticatoio dove stanno tutti i morti.
Sono qui perché anche lui molto tempo fa è stato da queste parti. Ho come la sensazione che in mezzo a tutte queste rovine il suo “sguardo d’archeologo”, come scrisse nel lontano 1972, mi sia ancora utile a descrivere pezzo per pezzo il mio mondo. Quando è morto, stava componendo le Lezioni americane , dove descrive i valori letterari che avrebbe voluto conservare: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità. Oggi, agli inizi del millennio che Calvino non fece in tempo a vedere, le sue conferenze mi sembrano lettere inviate ad amici ignoti. Ricordo la fine del libro: «Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…».
Che senso avrebbe la letteratura se non fosse divorata dalla pretesa impossibile di uscire da se stessa? Sarebbe un gioco che si inventa le sue regole e basta. Proprio questa domanda è il valore essenziale, implicito in ogni pagina delle Lezioni americane.
Prima di scrivere le lezioni, nel 1983 Calvino pubblica Palomar .
In un capitolo del libro,
Serpenti e teschi , il protagonista è in Messico. Visita le rovine dell’antica Tula. Con lui c’è un amico, esperto delle civiltà precolombiane. Palomar lo ascolta con attenzione, attratto dal gioco di rimandi che viene dai reperti del passato. Però è incuriosito anche dall’atteggiamento opposto, apparentemente rinunciatario, di un maestro elementare che sta accompagnando la sua scolaresca. Il maestro non offre una spiegazione – analogica, simbolica, allegorica, mitologica – dei monumenti, ma termina invariabilmente il suo discorso agli allievi con un laconico: «No se sabe lo que quiere decir» («Non si sa quello che vuol dire»). Palomar è a disagio. Si rende conto che le parole del maestro, pur non avendo nulla di scientifico, possiedono una certa saggezza. Riflette: «Il rifiuto di comprendere più di quello che queste pietre ci mostrano è forse il solo modo possibile per dimostrare rispetto del loro segreto; tentare di indovinare è presunzione, tradimento di quel vero significato perduto».
Per il maestro elementare, le pietre di Tula non sono segni, puntelli su cui far leva per almanaccare castelli di significati; sono apparenze che si presentano alla percezione e che perciò richiedono da parte di chi guarda una certa remissione delle facoltà razionali. Mentre Palomar sa già quel che vede, il maestro elementare si meraviglia e tace perché non lo sa. Per lui l’ignoto è all’ordine del giorno. Le cose sono mute. Possono emanare uno stato di quiete, ma che cosa possono dirci? Palomar, malgrado si sforzi, non riesce al contrario a trattenersi dal compiere l’eterna ubris, non smette cioè di pensare, di interpretare ogni cosa che vede, con tutto il fardello di nevrosi e scacchi che ciò comporta.
Ecco cos’è stata Tula per Calvino: la possibilità di sospendere la danza ermeneutica attorno alle cose, di cominciare un’altra danza. Il suo destino, come nel caso di Palomar, è stato poi quello di interpretare fino al suo ultimo giorno, tanto che il suo erratico tentativo di descrivere i valori letterari da trasmettere al millennio che non vide, si può ben definire, come nel caso del suo personaggio, una lunga esercitazione alla morte. Però qualcosa, alla fine delle sue Lezioni americane , è rimasto della laconica lezione del maestro elementare di Tula. Per questo mi piace immaginarlo qui, pieno di meraviglia di fronte a queste rovine mute, un po’ meno incredulo di fronte alle apparenze del mondo, mentre scende in silenzio le scale della grande piramide con al seguito una scolaresca di piccoli toltechi dalla testa impiumata.

La Stampa 11.9.15
“Nuova specie di ominidi”
Quindici piccoli antenati riemergono dal Sud Africa
L’Homo naledi è stato scoperto in una caverna ed è subito mistero “Forse una camera sepolcrale di 2 milioni e mezzo di anni fa”
di Gabriele Beccaria

Quindici antenati. Anziani, donne e bambini. Sigillati in una caverna claustrofobica del Sud Africa, come in una perfetta capsula temporale, riemergono da un oblio durato 2 milioni e mezzo di anni, forse 3, e - sostiene lo scopritore, Lee Berger - potrebbero riscrivere l’idea che abbiamo delle nostre origini.
L’evento annunciato sulla rivista «Elife» è il più grande ritrovamento di fossili mai avvenuto in Africa. E il più enigmatico: che cosa ci facevano 15 creature stipate a 40 metri sottoterra, in una grotta a cui si accede dopo 20 minuti di marcia ansimante, a volte strisciando, e dove l’entrata è un buco di una ventina di centimetri? Dal volto scimmiesco, ma con mani e piedi già sorprendentemente simili ai nostri, appartengono - ha annunciato Berger - a una nuova specie di ominidi. Specie battezzata Homo naledi, dal termine che in lingua Sesotho significa «stella»: il luogo, infatti, è noto come «Rising Star Cave» ed è a un’ora d’auto da Johannesburg.
Un’ipotesi è che siano rimasti intrappolati, da un crollo o da un’alluvione. Un’altra - la più intrigante - è che si tratti di una camera sepolcrale, il che suggerirebbe che l’Homo naledi fosse in grado di elaborare un pensiero simbolico, capacità che finora si attribuiva a ominidi molto più recenti. Uno scenario, questo, audace, ma tutt’altro che impossibile: mentre si susseguono le scoperte di nuove specie, l’idea che abbiamo dei nostri progenitori - paradossalmente - si fa più complessa. E a tratti confusa.
Non è un caso che nella piccola ma agguerrita comunità dei paleoantropologi, in cui Berger scintilla per impatto mediatico, si sia scatenato il dibattito. Dall’entusiasmo di Chris Stinger, curatore al Museo di Storia Naturale di Londra, ai dubbi di Christoph Zollikofer, antropologo dell’Università di Zurigo. Se - dichiara Berger - questo Homo è da considerarsi un «ponte» tra i primati in grado di spostarsi su due zampe (o quasi gambe) e i primi esemplari di umani, l’epoca appartiene a una fase-chiave della nostra ancora controversa comparsa ed evoluzione. Ma il futuro fa ben sperare. Quei 15 piccoli antenati - da vivi non superavano il metro e mezzo - rappresentano una miniera di informazioni e ci vorrà tempo per strappare ai 1500 pezzi in cui si sono frantumati i loro scheletri tutto ciò che racchiudono. Dalla crescita all’alimentazione, fino alle cause della morte.
Ora le ossa sono conservate in una camera blindata della Witwatersrand University, a Johannesburg. Come un tesoro, quale in effetti è. Se l’assemblaggio del primo scheletro è stata una sfida, un puzzle biologico, il recupero non è stato meno impegnativo. I resti erano ammassati in una grotta - la «Dinaledi chamber» - così piccola che riportarli alla luce ha richiesto un lampo di genio: il lavoro di scavo di sei donne, scelte non solo per la bravura, ma per la corporatura. Dovevano essere abbastanza piccole e magre da muoversi in scioltezza.
Adesso le immagini di uno degli scheletri stanno facendo il giro del mondo. E la «posa» ricorda tantissimo quella di Lucy, l’Australopithecus di circa 3 milioni e mezzo di anni fa scoperto da Donald Johanson negli Anni 70 e diventato l’icona dei nostri progenitori. Almeno fino all’arrivo di 15 temibili concorrenti.

La Stampa 11.9.15
“Lontani cugini che cambiano le idee sull’evoluzione”
Parla il paleoantropologo Berger che ha guidato il team “Si credeva che le sepolture fossero un’invenzione dei Sapiens”
di Lorenzo Simoncelli

«Signore e signori, vi presento l’Homo naledi. Una nuova specie umana, un nostro lontano cugino. Una scoperta senza precedenti, che lascerà un segno nello studio della paleontologia». Esordisce così il professor Lee Berger, paleoantropologo e ricercatore della Wits University di Johannesburg, davanti a giornalisti e personalità politiche arrivate in massa a Maropeng, sito archeologico patrimonio dell’Unesco, a 50 km da Johannesburg, in Sud Africa.
Americano, 49 anni, Berger sa di avere ben più di 15 minuti di celebrità, e tutti gli occhi addosso dopo anni di studio e di scavi. Dal 2013 dirige un team internazionale di oltre 50 scienziati, incluso l’italiano Damiano Marchi, ricercatore dell’Università di Pisa. Un gruppo selezionato per concorso, che ha lavorato nel sito «Cradle of humankind» - tradotto: culla del genere umano - per scoprire se davvero le origini dell’uomo risalgono proprio a una zona molto specifica, vale a dire l’Africa australe.
«Quello che abbiamo trovato, in una grotta a 40 metri di profondità - racconta Berger - è un vero e proprio mosaico fossile, composto da oltre 1.500 ossa. Risalgono probabilmente ad ominidi vissuti all’incirca due milioni e mezzo di anni fa. Bambini, giovani e anche adulti. Hanno caratteristiche abbastanza simili a quelle di alcune specie più primitive del genere Homo, come l’Homo habilis. A cominciare dal cranio: molto piccolo, ma molto simile a specie più arcaiche, dell’australopiteco».
Ma non siamo di fronte a qualcosa di simile a Lucy, spiega Berger: «Sono soprattutto i denti, le mani, le gambe e i piedi, quasi identici a quelli dell’uomo moderno, che lasciano credere che si tratti di ominidi del genere Homo».
Un ritrovamento strabiliante anche per le difficoltà affrontate dal gruppo di ricerca. «La scoperta dei resti - ha raccontato il capo della spedizione - è avvenuta trovando una fessura all’interno di una serie di grotte. Dopo accurate analisi, abbiamo capito che solo donne molto longilinee si sarebbero potute addentrare. E così ho pubblicato un bando internazionale. Con il finanziamento del “National Geographic” abbiamo reclutato sei giovani ricercatrici che sono entrate dentro l’anfratto».
Le scienziate hanno posizionato un cavo ottico lungo 3,5 km e da quel momento in poi le operazioni di scavo sono state coordinate insieme con un altro gruppo di scienziati rimasto in superficie.
Ed è proprio il contesto in cui sono stati ritrovati i fossili a far emergere uno degli aspetti più straordinario del ritrovamento. «All’interno della grotta - ha spiegato Berger - c’erano praticamente soltanto resti di Homo naledi. Non c’erano invece fossili appartenenti ad altri animali e, dopo aver analizzato tutti gli scenari possibili, siamo arrivati alla conclusione che sia stata questa specie a voler intenzionalmente seppellire i corpi dei propri defunti. Che quindi fossero dediti al rito della sepoltura. Molto prima dell’Homo sapiens, considerato fino ad oggi l’iniziatore di questa pratica».
Dopo un anno di lavoro frenetico, è presto per dirlo. Ma sarebbe proprio questa la conferma che fissa l’origine del genere umano nell’Africa australe. Su questo tema Berger resta ancora cauto. «Il ritrovamento - ha concluso - è un segnale forte. Dimostra come in passato siano stati commessi errori, che non hanno permesso di far venire alla luce un passaggio fondamentale nella storia dell’evoluzione. E tuttavia: non possiamo escludere che esistano altre zone del mondo dove, in futuro, si scoprano nuove specie. Ancora più antiche».

Repubblica 11.9.15
Quei fossili pieni di mistero si riveleranno una Stele di Rosetta
di Marco Cattaneo

LA scoperta è di quelle da togliere il fiato, per chi è abituato a navigare nella comunità dei paleoantropologi. Capaci di dibattere fino allo sfinimento intorno a una falange o a un microscopico pezzetto di mandibola, si sono trovati sotto il naso un tesoro di valore inestimabile. E tutto in una volta: oltre 1500 tra ossa e denti appartenenti a 15 individui diversi sono un evento senza precedenti nella storia dello studio dell’evoluzione umana. E a partire da questa immane messe di fossili e dai molti misteri che li circondano ci sarà materia di studio per molti anni a venire.
Tanto per cominciare c’è la questione della datazione. I sedimenti della grotta in cui è stato trovato Homo naledi non sono stratificati, e questo rende complessa la datazione dei resti. Soprattutto perché la nuova specie presenta caratteri sia primitivi, a cominciare dalle dimensioni del cervello, sia caratteri moderni, soprattutto negli arti inferiori.
Così al momento si possono fare solo ipotesi. La più accreditata, proprio per le caratteristiche promiscue di H. naledi, è che si collochi tra 2,5 e 2 milioni di ani fa, tra le prime specie del genere Homo.
Ma potrebbe anche risalire a 3-4 milioni di anni fa, scalzando Lucy, l’australopiteco scoperto negli anni settanta in Etiopia da Donald Johanson, dalla lista dei nostri diretti antenati. Oppure potrebbe essere molto più recente, degli ultimi 500.000 anni, e avere convissuto con la nostra specie fino a poco tempo fa. Un po’ come i Neanderthal e l’uomo di Flores, con tutte le differenze del caso.
Tutte queste incertezze hanno contribuito a ritardare la pubblicazione della scoperta, come racconta Jamie Shreeve su National Geographic di ottobre. E finché Berger non troverà un modo per attribuire un’età ai suoi fossili c’è da scommettere che ci sarà grande fermento intorno a questo nostro bizzarro parente.
Ma c’è un interrogativo forse ancora più interessante. Come ci sono arrivati fin lì quei resti? La grotta dove sono stati scoperti è praticamente inaccessibile, e forse in passato c’era un’altra entrata, che finora i ricercatori non hanno individuato. Di sicuro non sono stati lasciati da carnivori, perché le ossa non recano segni di denti. E probabilmente non sono stati portati dall’acqua, che avrebbe depositato anche altri sedimenti. Ma difficilmente un essere dal cervello così piccolo, riconosce lo stesso Berger, poteva mettere in atto un comportamento così complesso come liberarsi deliberatamente dei corpi, magari facendo uso addirittura del fuoco per raggiungere un luogo buio e impervio. Ancora più arduo ipotizzare che fosse una forma di cura dei defunti: le prime sepolture umane conosciute risalgono a circa 100.000 anni fa, e forse, oltre a noi, le praticavano solo i Neanderthal.
Insomma, come spesso accade con le scoperte di questa portata, per il momento i fossili di Rising Star offrono più domande che risposte. Ma negli anni a venire potrebbero diventare una specie di stele di Rosetta della nostra evoluzione.

La Stampa 11.9.15
Lucy e gli altri progenitori
Una sfida nell’Africa primordiale
Come la Natura realizzò una serie di clamorosi “esperimenti biologici”
Un’eredità che va dalla camminata bipede fino all’intelligenza
di Nicla Panciera

La scoperta di Lucy, l’icona dell’evoluzione umana, avvenne nel 1974. Subito si pensò che così si sarebbero chiarite le nostre origini. Ma oggi, dopo 40 anni di ricerche, è chiaro che non di «albero evolutivo» si deve parlare quanto di un folto cespuglio, dal quale solo pochi rami si sono spinti fino al presente.
Siamo in viaggio da oltre 2 milioni di anni, da quando i primi esemplari del genere Homo si diffusero dal continente africano nell’Eurasia e oltre. Un viaggio geografico e cronologico di cui conosciamo molti dettagli grazie a studi paleantropologici, archeologici e genetici. La nostra solitudine come specie è abbastanza recente: abbiamo avuto molti avi, fratelli e sorelle e cugini, soprattutto tra 4 e 2 milioni di anni fa, quando specie differenti popolavano l’Africa, come spiega Luca Bondioli, paleoantropologo al Museo Nazionale Preistorico Etnografico Luigi Pigorini di Roma.
«I Vecchi»: Ardi
L’epoca è 4,4 milioni di anni fa. Protagonista è l’Ardipithecus ramidus. Il più antico e più probabile antenato dell’uomo aveva un cervello piccolo, pesava 50 kg e visse nell’attuale Etiopia. «Bacino, piedi, gambe e mani - spiega Bondioli - suggeriscono che si spostasse come un bipede sul terreno e come un bipede-quadrupede sugli alberi». Fu considerato come una scoperta altrettanto importante di quella di Lucy. I ricercatori ritengono che sia proprio Ardipithecus il primo genere di ominide apparso dopo la differenziazione fra umani e scimmie, ma esistono anche altri candidati: Toumai (Sahelanthropus tchadensis, di 7 milioni) e Orrorin tugenensis (detto anche Millenium Man, di 5-6 milioni). Tutto dipende anche da quando si colloca la separazione tra noi e gli scimpanzé che probabilmente avvenne tra i 9 e i 5 milioni di anni fa.
Lucy e il «parente»
Se Lucy è la più nota, l’australopiteco femmina risalente a circa 3,2 milioni di anni fa, risale invece a 3.5-3.3 milioni di anni fa l’Australopithecus deyiremeda, che coabitava con Lucy stessa, ma aveva dieta diversa. Scoperto da pochissimo, aumenta ancora di più la «confusione» del cespuglio e mostra - dice il professore - come la nostra storia naturale sia stata più complessa di quanto ritenessimo.
L’enigmatico A. gahri
La scena si sposta a 2,5 milioni di anni fa: questo è un altro Australopithecus, ma non è molto ben documentato e le recenti scoperte di un frammento fossile, di 2,8 milioni di anni, fa vacillare la sua candidatura a nostro progenitore.
L’ibrido sediba
Risale a 1.9 milioni di anni. Scoperto nel 2010, nel sito di Malapa vicino a Johannesburg, questo Australopithecus visse in contemporanea con i primi Homo. Da alcuni - dice Bondioli - è considerato «un mosaico di caratteristiche australopitecoidi e di altre più simili a Homo. Probabilmente aveva una vita con una forte componente arboricola».
È comunque chiaro che, nella complessa articolazione del «cespuglio», si ritrovano sempre di più specie con caratteristiche a mosaico: alcune primitive e altre moderne. È un fenomeno che si è osservato ora anche con l’Homo naledi.
Erectus ed ergaster
Vissero da 2 milioni a circa 100 mila anni fa in Asia: sono le prime forme di Homo diffuse su tutta la Terra, le più simili a noi, nel fisico e forse nella socialità.
La galleria del tempo
Ecco, così, tracciata una galleria di antenati, naturalmente per sommi capi: è il risultato di rapide occhiate dal buco della serratura dei ritrovamenti rispetto ad una storia di molti milioni di anni. Sono come i fotogrammi sparsi di un mondo infinitamente più vasto e più ricco. «Quello a cui ambiamo, nell’incompletezza delle nostre conoscenze e dei dati a nostra disposizione, è di arrivare ad un quadro finalmente coerente dell’evoluzione umana», spiega Bondioli. E ora l’Homo naledi apre nuovi scenari.
Il nodo della datazione
«Questa scoperta inattesa e ancora da valutare - aggiunge - ci dà la speranza di allargare quel piccolo buco nella porta del tempo, dal quale spiamo la nostra storia. I resti dei 15 individui rinvenuti nella grotta di “Rising Star” e le aree ancora da scavare costituiscono, da soli, una quantità di materiale fossile umano più abbondante di quanto ne abbiamo scoperto in tutta l’Africa dal 1924 ad oggi: lo commentavo proprio con John Hawks della University of Wisconsin-Madison, uno degli autori della scoperta in Sud Africa».
Gli studiosi nel mondo
Una datazione certa al 100% avrebbe di sicuro reso l’annuncio rivoluzionario, conclude il professore italiano. Ma, comunque, «in queste ore i 500 paleoantropologi di tutto il mondo che stanno leggendo gli articoli scientifici sulla scoperta sanno che c’è un aspetto più che significativo e che, forse, ci costringe ad attribuire un pensiero simbolico e capacità cognitive complesse a ominini con un cervello non più grande di quello di un gorilla».

nell’immagine; la copetina del fascicolo di di ottobre di National Geographic Magazine.
Ricostruzione di John Gurche del volto di Homo naledi. Foto: Mark Thiessen/National Geographic