Repubblica 30.8.15
Il papa, i migranti e l’aiuto degli angeli custodi
“Ama il prossimo tuo” è il motto del Pontefice ma anche della sinistra
di Eugenio Scalfari
NELLE prossime settimane papa Francesco andrà a Cuba, poi a Filadelfia e infine a Washington dove incontrerà Obama e parlerà al Congresso degli Stati Uniti e a New York dove parlerà all’Assemblea dell’Onu e alle grandi potenze del Consiglio di sicurezza.
Sappiamo già quale sarà — al Congresso Usa e all’Assemblea Onu — il tema fondamentale di Francesco: quello dei migranti. Lui li chiama così ed è perfettamente corretto dal suo punto di vista; per alcuni Paesi sono persone che vogliono emigrare e lo fanno a prezzo della vita; per altri Paesi sono immigranti che vengono in certi casi accolti, in altri respinti per mancanza dei requisiti richiesti. Ma per Francesco la parola giusta è quella che Lui usa sempre più spesso: migranti. Sono popoli che per una quantità di ragioni si trasferiscono da un continente all’altro, quasi sempre in condizioni di schiavitù imposte da trafficanti di persone.
Popoli che, solo pensando all’Africa sub-sahariana dal Ciad alla Somalia, dalla Nigeria al Sudan, ammontano a cinque milioni per il 2015-16, ma a 50 milioni entro i prossimi trent’anni. Ma non è solo in Africa che avviene questo fenomeno: sta sconvolgendo tutto il Medio Oriente, i Balcani, la Turchia, la Siria, gran parte dell’Indonesia e delle Filippine.
Insomma mezzo mondo è in movimento, individui, comunità e interi popoli. Le migrazioni non sono un fenomeno nuovo ma nella società globale il fenomeno coinvolge masse imponenti come non era mai accaduto prima.
VENERDÌ scorso ho avuto un lungo colloquio telefonico con papa Francesco, che ha toccato vari temi, ma soprattutto quello delle migrazioni. Non starò a raccontare ciò che ci siamo detti su altri argomenti ma su questo sì, penso e desidero farlo perché è dominante nella coscienza del Papa e perché comunque sarà tra pochi giorni direttamente affrontato in due sedi della massima importanza.
Francesco sa benissimo che le immigrazioni dirette verso continenti di antica opulenza e di antico colonialismo, anche se riconoscono alcuni diritti di asilo con più ampia tolleranza di quanto finora non sia avvenuto, saranno comunque limitate. Ma il suo appello al Congresso americano e a tutte le potenze che rappresentano il cardine dell’Onu e quindi del mondo intero, verterà necessariamente su un altro aspetto fondamentale delle migrazioni: una conquista di libertà dei migranti che avviene, per cominciare, nei luoghi stessi dove ancora risiedono e dai quali vorrebbero fuggire. È lì, proprio in quei luoghi, che il diritto di libertà va riconosciuto, oppure nelle loro adiacenze, creando se necessario libere comunità da installare in aggregati che esse stesse avranno costruito e amministreranno con l’aiuto di centinaia o migliaia di volontari che le assisteranno con una serie di servizi e con un’educazione allo stesso tempo civica e professionale. Questo è il progetto che papa Francesco sta coltivando e che ovviamente ha bisogno del sostegno delle grandi potenze indipendentemente dalla loro civiltà, storia, religione.
La Chiesa missionaria di Francesco sarà naturalmente presente in tutti i luoghi dove le sarà possibile, ma i volontari da mobilitare non saranno ovviamente tutti cristiani. Saranno però soprattutto i giovani ai quali fare appello. I giovani d’oggi hanno una gran voglia di fare che a volte si identifica addirittura alla violenza e al terrorismo. Ma non è il male la radice più naturale. Francesco crede e spera che la radice più diffusa sia quella del fare e dell’aiutare il bene degli altri. Per questo prega e questo pensa e di questo parlerà nel prossimo viaggio.
Riuscirà ad ottenere la sponsorizzazione dei Grandi del mondo? Riuscirà a mobilitare al massimo le Chiese missionarie cattoliche e cristiane in un’impresa di questa levatura? Collaboreranno nei loro modi anche le altre grandi religioni del mondo, non inquinate da germi fondamentalisti che portano al terrorismo e alla strage? Una cosa è certa, almeno per me ma credo per immense moltitudini di persone: non c’è che papa Francesco che sia in grado di tentare una simile iniziativa.
Ascoltando il suo linguaggio direi che chieda il soccorso di migliaia e migliaia di angeli custodi, in tutte le parti del mondo, ispirati dal Dio che è uno soltanto, quali che siano le forme, le liturgie e le scritture con le quali è venerato. *** Il tema che ora desidero trattare è del tutto diverso: è politico, è italiano ed europeo. Ma qualche attinenza con quanto fin qui ho scritto c’è. Il tema è quello della sinistra e la domanda è questa: la sinistra può vincere oppure è destinata a perdere perché, almeno in Occidente ma non soltanto, il tempo della sinistra è tramontato per sua stessa insipienza ed è solo al centro che, almeno in Italia e in Europa, si riesce a raccogliere il massimo dei consensi?
Per dare una risposta a chi pone questa domanda vorrei come premessa ricordare una massima creata da papa Francesco a proposito dell’etico-politico che è una fondamentale categoria dello spirito pensante: “Ama il prossimo un po’ più di te stesso”.
Si rivolge soprattutto ai ricchi, ai benestanti, ai potenti, e li esorta in favore dei poveri, dei poco abbienti, degli esclusi.
Questo è il motto di Francesco ma questa è anche da secoli la bandiera della sinistra, quella cattolico-democratica ma soprattutto quella che fu comunista, azionista, liberaldemocratica. La sinistra moderna insomma, che ha alle spalle la storia di quasi due secoli. Questa è la premessa del tema. “Ora ascoltate com’egli è svolto” (I Pagliacci).
Paolo Mieli sul “Corriere della Sera” di giovedì 27 agosto ha scritto che in Italia (ma fa anche alcuni esempi europei) la sinistra novecentesca fino all’oggi contemporaneo, non è mai riuscita a vincere per propria incapacità congenita e quindi per propria colpa. Le pochissime volte che ci riuscì pose essa stessa le premesse per perdere al più presto i consensi che aveva per eccezionali circostanze guadagnato. Per cui — Tony Blair insegni — per vincere la sinistra deve spostarsi al centro e produrre cambiamenti che sono di sinistra non per il contenuto ma per il fatto stesso che innovano e l’innovazione è comunque (per Mieli) un elemento di sinistra.
Il giorno dopo, sempre sul “Corsera”, Angelo Panebianco ha citato Mieli concordando sulla sua tesi ma dando al tema un’ulteriore e più tecnica dimostrazione. La riassumo in breve: la sinistra non è in grado di realizzare una politica fiscale innovativa e capace — sia nel prelievo sia nella spesa e nella ricerca delle risorse — di incentivare gli investimenti pubblici e soprattutto quelli privati, di creare nuovi posti di lavoro e insomma sviluppo, crescita e maggior benessere.
La sola cosa che la sinistra (immobilista per antonomasia) è in grado di fare è di trasferire il peso delle tasse dalle spalle di alcune categorie sulle spalle di altre. Insomma, una redistribuzione del carico fiscale che lascia totalmente invariata e immobile l’economica nazionale.
***
Risposta a Mieli. Anzitutto: lo Stato italiano non fu fatto soltanto da Cavour e dai patrioti del suo conio liberale e laico. Fu fatto dalla predicazione di Mazzini, dalla sua “Giovane Italia” e soprattutto dal mazziniano ma assai più carismatico Giuseppe Garibaldi.
Se non ci fosse stata l’impresa dei Mille e le due grandi battaglie vinte, quella di Calatafimi all’inizio (“Qui si fa l’Italia o si muore”) e quella del Volturno, la guerra franco-piemontese contro l’Austria del 1859 si sarebbe conclusa con l’annessione al Piemonte della Lombardia. Cavour del resto — anche per riuscire ad allearsi con Napoleone III — aveva dovuto fare il “connubio” con la sinistra di Rattazzi.
Tirando le somme: senza la sinistra il Risorgimento non ci sarebbe stato e il Regno d’Italia già molto tardivo a nascere nel 1861, avrebbe probabilmente tardato un altro mezzo secolo.
Ma Mieli lamenta altre cose. Per esempio la fralezza dei socialisti, anarchici all’inizio, massimalisti poi e infine l’impotenza dei comunisti stalinisti. Soltanto Berlinguer ruppe quel vincolo, ma la sua collaborazione con la Dc durò lo spazio di un mattino. Dopo ricominciò una sistematica opposizione che adesso è scaduta a bersaniani, a Gotor, a gruppettari come Fassina e insomma solo adottando la politica di Blair e prendendo molti voti al centro si vince. Ebbene, in alcune cose Mieli ha ragione, ma altre le sbaglia.
All’inizio del secolo XX furono i socialisti di Treves e di Turati a spingere Giolitti su posizioni riformiste. E fu il Partito socialista a battersi contro la guerra del 1915. Infine il grande partito della ricostruzione del Paese e della massiccia emigrazione dei giovani dal Sud al Nord, vide la presenza determinante del Pci, di Togliatti, Ingrao, Amendola, Scoccimarro, Alicata, Longo, Reichlin, Napolitano, Chiaromonte e di molti altri ancora che si dedicarono all’educazione delle “plebi” insieme a sindacalisti della personalità di Di Vittorio, di Trentin e di Lama.
Senza una classe dirigente di questo livello la classe operaia non ci sarebbe stata e l’Italia sarebbe affondata nel medio ceto burocratico e nella vecchia cultura contadina.
È vero, quella sinistra non governò, ma contribuì all’evoluzione politica e culturale del Paese come e di più di chi governava. Ciriaco De Mita fu tra i pochi a capirlo nella Dc. Ma, tranne rare eccezioni tra le quali De Gasperi, la massa dorotea della Dc fu immersa nel politichese anzi ne fu quella che lo inventò.
A Panebianco ho poco da dire se non questo: tra cambiamento e innovazione c’è una profonda differenza. Innovazione rinnova, lo dice la parola stessa; il cambiamento può essere innovativo oppure regressivo e reazionario.
Tanto per fare un esempio (non fiscale ma storico): il principe di Metternich promosse dopo la battaglia di Lipsia il Congresso di Vienna che ebbe termine dopo Waterloo. Cambiò L’Europa? Certamente. Come? Riportando sui troni d’Europa i monarchi assoluti che la Rivoluzione e Napoleone avevano abolito.
Il fisco attraverso il quale si crea il reddito a favore delle classi meno abbienti non è affatto immobilista. Panebianco dovrebbe dirci se sia stato meglio dare 80 euro mensili al medio ceto come mancia elettorale permanente, oppure se non sarebbe stato molto meglio ridurre il cuneo fiscale con quei 10 miliardi. E se sarebbe privo di effetti innovativi l’abolizione del cuneo fiscale che tutti gli altri provvedimenti, a cominciare dal Jobs Act, che non hanno ancora prodotto neppure l’ombra di un nuovo posto di lavoro.
Mi contenterei di questa risposta. Grazie.