domenica 30 agosto 2015

Repubblica 30.8.15
La mistica della fisica
di Paolo Zellini


Calcolatori quantistici, tremore di particelle invisibili, collisioni tra forze impercettibili: ecco perché il linguaggio della scienza ha raggiunto l’astrazione delle metafore spirituali
Credere in certi concetti relativi ai campi numerici, affermava Hermann Weyl già nel 1946, “mette alla prova la forza della nostra fede non meno delle dottrine dei primi Padri della Chiesa o dei filosofi scolastici del Medioevo”

Molte grandi scoperte della fisica e della matematica, concezioni ardite che hanno segnato nei secoli il nostro modo di orientarci nel mondo, sono state propiziate da illuminazioni intellettuali o da ispirazioni paragonabili a un raptus metafisico. Certo così è stato per le teorie fisico-matematiche dello spazio e del tempo, le prime forme dell’intuizione da cui dipende la nostra conoscenza. Fin dalle grandi intuizioni di Parmenide e di Melisso, nel VI e V secolo a.C., l’indagine scientifica si è intrecciata alla metafisica, e i celebri paradossi di Zenone, lungi dall’essere semplici sofismi, hanno posto in forma enigmatica la questione della veridicità: ciò che vediamo, sentiamo e tocchiamo rispecchia davvero la realtà delle cose? Sono soltanto gli dèi a essere completamente veridici, ed è questa una specie di debolezza, che li rende cauti e misurati nel contatto con gli uomini: pur veridici, prediligono il falso, camuffandosi per mezzo di enigmi e di oscure allusioni. La scienza ha poi tentato di risolvere gli enigmi, ma è davvero riuscita, nel suo slancio prometeico, a sbarazzarsi degli dèi, che per primi li avevano posti? O invece la fisica e la matematica, proprio nelle loro ricerche più avanzate, conservano ancora le tracce di quell’affinità iniziale tra ragione e metafisica? Nel suo grande trattato del 1687 sui princìpi matematici della filosofia naturale Newton spiegava come i fenomeni osservabili nel cielo e sul mare sono comprensibili grazie alla forza di gravità. Egli non azzardava ipotesi sulle cause di questa forza, eppure nelle ultime righe del trattato non esitava a descrivere il mondo con parole degne di un grande mistico visionario. La realtà materiale gli appariva pervasa da uno “Spirito” sottile e vibratile, nascosto nei corpi, che provoca attrazioni e interazioni di natura elettrica.
Newton s’immaginava, per simulare una densità atomica infinita, uno spazio astratto continuo, nel quale poter introdurre i concetti dell’analisi che servono a definire nozioni della dinamica, come la velocità e l’accelerazione. Ma lo spazio è continuo o discreto, è formato da punti atomici o è infinitamente divisibile? Intuitivamente, c’è continuità se ci sono unione e coesione, contiguità e contatto, come per le grandezze geometriche. I numeri naturali e le frazioni sono invece quantità staccate e formano un insieme discreto.
Alla fine dell’800 fu proposto un modello numerico del continuo, adeguato agli scopi dell’analisi, aggiungendo ai numeri interi e ai numeri razionali (le frazioni) i numeri irrazionali. Ma in che senso si poteva sostenere che esistono i numeri irrazionali? È la questione che ha sempre avvicinato la scienza alla notte oscura di una virtuale teologia negativa, orientata a cogliere un’allusione all’essere divino nell’assenza di positività, nelle soluzioni paradossali e nelle inevitabili lacune del corpo numerico razionale. L’urgenza di una risposta, o di una riformulazione della domanda, è ora dovuta all’enorme diffusione dell’informazione digitale, che ha un carattere eminentemente discreto. Basti pensare alla trasmissione di segnali di qualsiasi tipo, o ai motori di ricerca su rete, il cui funzionamento richiede miliardi di operazioni digitali e algoritmi adeguati a un calcolo su grande scala. La matematica è una scienza “divina”, dichiarava John von Neumann nel 1954. E si può immaginare che egli alludesse alle dimensioni inaudite che, grazie alle sue ricerche, stava assumendo il calcolo scientifico. Un calcolo sempre più simile, da allora, a un’impresa titanica; «un’insolenza contro gli dèi», avrebbe commentato Norbert Wiener. Nelle equazioni della fisica matematica troviamo variabili continue, ma le loro soluzioni numeriche si esprimono in collezioni discrete di sequenze di zeri e di uni. Per calcolarle occorrono, nel discreto, complesse strutture matematiche di cui non si trova sempre l’equivalente nel continuo. Queste strutture sono strumenti operativi necessari per risolvere le equazioni, per venire a capo di uno smisurato sistema di calcoli e guadagnare un’effettiva comprensione della realtà fisica. Né in fisica né in matematica ci sono evidenze, sosteneva John A. Wheeler, grande studioso di teorie gravitazionali, che lascino supporre che esista un continuo. Autorevoli precedenti comprovavano la sua convinzione: credere al mondo trascendente dei campi numerici continui, affermava Hermann Weyl nel 1946, «mette alla prova la forza della nostra fede non meno delle dottrine dei primi Padri della Chiesa o dei filosofi scolastici del Medioevo».
Einstein, da parte sua, aveva ricondotto il tempo e lo spazio continui a entità fantomatiche, spiegando che «sono modi con cui pensiamo e non condizioni in cui viviamo». Wheeler era più radicale: non c’è nessuno spazio e nessun tempo. Egli studiava, negli anni ’80, i possibili nessi tra la meccanica quantistica e la scienza dell’informazione, un implicito annuncio dell’avvento di calcolatori quantistici, di operatività ancora incerta, in grado di risolvere problemi altrimenti intrattabili.
Oggi, fedele a un disegno riduzionista, la fisica tende a ricondurre la natura a una trama di complesse interazioni tra diverse particelle, elettroni e fotoni, quark e bosoni, gluoni e neutrini. Il mondo microscopico, alla scala di distanze di piccolezza inimmaginabile, è un vorticare irrequieto di elementi, un intreccio di collisioni e di forze, in cui la geometria varia costantemente, tempo e spazio si distinguono a fatica, e si susseguono capricciosi micro-eventi di durata impercettibile. C’è una precisa struttura matematica (il cosiddetto Modello Standard) che descrive la strana indeterminazione, il tremore granulare, quantistico, del mondo microscopico.
Nella formula nama-rupa della tradizione vedica e buddista, che esprime la complementarità di nome e forma, di mente e materia, il nome non è una sostanza, ma ne è il presupposto. Il celebre orientalista russo Theodore Stcherbatsky notava che gli elementi dell’esistenza, nel Buddhismo, sono manifestazioni effimere, lampeggiamenti momentanei che vengono al mondo da una sorgente sconosciuta. Essi appaiono e scompaiono in infinitesimi di tempo, separati nello spazio e non legati tra loro da alcuna sostanza. Il tempo è un’idea senza realtà, una vuota costruzione della mente.
La mistica ebraica, incentrata sull’idea di un nulla nell’intimo di ogni essere, offre analoghi spunti di riflessione. Donne e uomini viaggiano da un mondo all’altro e capita allora che proprio nelle condizioni di sospensione tra diversi stati, in punti di ramificazione tra due mondi, si svelino dimore celesti. La bella Jechidà, un’anima femminile condannata a incarnarsi, soltanto dormendo e sognando supera «l’illusione del tempo e dello spazio, della causa e dell’effetto, del numero e della relazione», avvicinandosi così alla verità del mondo delle origini.