domenica 30 agosto 2015

Repubblica 30.8.15
Luigi Zoja
“Siamo vittime di noia e paranoia e non viviamo più di miti universali”
La scoperta di Jung. il rapporto con Hillman
“Lo scopo del mio lavoro ‘ la ricerca del senso”
colloquio con Antonio Gnoli


Dio
Abbiamo sostituito Dio con il nostro protagonismo
Anche se io sapessi che esiste avrebbe poca importanza
Più importante sarebbe chiedersi: Lui sa che esisto io?

Archetipi
Omero, il più profondo degli psicologi dice che Zeus manda agli uomini sogni veri e sogni falsi
Vuol dire che non bisogna prendere alla lettera gli archetipi, ma essere coscienti della loro influenza

In tempi in cui la barra della storia sembra passata dalla psiche individuale a quella collettiva mi viene di pensare a Carl Gustav Jung. Alla sua visione a tratti allarmata e profetica degli effetti che l’inconscio collettivo ha prodotto sull’annegamento della coscienza singola. E se il pensiero mi sfiora lo debbo anche a un prezioso libretto che Luigi Zoja ha dedicato alla psiche (in uscita da Bollati Boringhieri). Di questo junghiano avevo letto in passato un’analisi, sul rapporto tra paranoia e storia, così acuta da invogliarmi a grattare sotto al suo mestiere per capire chi fosse e cosa facesse in realtà questo studioso così attratto dalle grandi questioni sociali più che dalle singole anime. Un motivo per conoscere, dunque, un uomo nato sotto i bombardamenti, a Milano nell’agosto del 1943.
Che cosa ha ricostruito di quei momenti legati alla nascita?
«In quei mesi i bombardamenti distrussero un quarto di Milano. Genitori, zii, nonni si trasferirono insieme sul Lago Maggiore. Mi raccontarono che per via degli incendi, le notti milanesi non erano mai buie. Mia madre guardava gli aerei con sentimenti contraddittori: più bombe arrivavano più presto sarebbe finita, pensava. La guerra – con i suoi vinti e vincitori, con le sue tragedie e i suoi morti – era davanti ai miei occhi infanti. Me la raccontarono a tal punto che cominciai presto a occuparmi di miti eroici e dei loro lati oscuri».
Cominciò in che senso?
«Fu un fantasticare vago in un ragazzo senza idee. Mi sembrava di vivere in un mondo tutt’altro che repressivo, ma pienamente estraneo ai miei interessi. E ho continuato così fino alla maturità classica. E poi all’università, dove frequentai la Bocconi».
Si iscrisse a economia?
«Sì. Nella prospettiva paterna che lavorassi nell’azienda di famiglia. Ho fatto la Bocconi per mancanza di fantasia. Non mi ero accorto che esisteva un altro mondo. Mi annoiavo e tutto quello che mi circondava era molto deprimente. Depistai. Più che all’economia mi interessai alla sociologia laureandomi su Charles Wright Mills, un marxista americano, autore oggi dimenticato. Era il 1967».
Si preparava la contestazione.
«Sembrava un’alba radiosa».
E invece?
«Era già tramonto».
Come lo visse?
«Cercavo figure ideali senza trovarle. In quelle borghesi mi spaventava il grigiore o il cinismo, in quelle rivoluzionarie l’esaltazione. Le emozioni dei cortei mi parevano primordiali, calcistiche. Non mi integravo nelle manifestazioni. Si urlava lo slogan “Padroni, borghesi, ancora pochi mesi”. Mi dissi: se è così tra un po’ dovrò collaborare a eliminare me stesso. A quel punto scelsi di andare a Zurigo».
Alla ricerca del fantasma di Jung: come c’era arrivato?
«Avevo sempre coltivato la fantasia di andarmene. Sempre verso Nord. Mi sembrava che dove c’era più freddo ci fosse più spazio per essere se stessi. Fu così che arrivai allo Jung Institut. Ricordo un luogo popolato soprattutto da americani che si fermavano un semestre, proseguendo per l’India in autostop, con la marijuana e i libri di Hesse nello zaino. Ad ogni modo scegliere Jung invece di Freud fu per me casuale. Feci la domanda, i colloqui. Fui accettato».
Somiglia a un personaggio balzato fuori da un romanzo di Svevo.
«Non a caso c’è molta psicoanalisi nei suoi libri. Per quanto mi riguarda, mi accorsi di essere contraddittorio. Introverso. Nutrito di aspirazioni estetiche e romantiche che nel mondo postmoderno sono abbastanza pericolose ».
Ha trovato i suoi maestri?
«A lungo ho fatto da solo. Anzi, posso dire che la solitudine mi ha perseguitato. Come del resto la noia. Più tardi ci sono stati Andrew Samuels a Londra, Adolf Guggenbühl a Zurigo e James Hillman in America».
La solitudine può aiutare. E la noia?
«La nostra epoca ha troppa paura della noia. Ciò che nasconde la noia, quando sentiamo tutto grigio, è, stranamente, l’eccitazione, l’impazienza, l’aggressività, l’eros. Oggi penso che se si è annoiati è fondamentale esercitare l’immaginazione in questi territori repressi. Allora, e fino ai 25 anni, mancavo di scopi, quindi di passioni ».
Come reagiva?
«Ero troppo occupato e preoccupato di me stesso per accorgermene».
Le mancava una figura affettiva?
«Una figura affettiva è importante ma insufficiente. Mio padre, ad esempio, era ansioso, non abbastanza cresciuto autonomamente fuori dall’ombra del nonno. Certe volte penso che avrei dovuto mostrare più fermezza di lui con i miei figli. Non so se ci sono riuscito».
Avverto il dubbio.
«Sono loro che devono farti capire se sei stato un buon padre».
Il mestiere di psicoanalista non interferisce con quello di buon padre?
«È una domanda difficile. Perfino terribile. Il rischio c’è. Omero descrisse l’antica alternanza: in pace i figli seppellivano i padri; in guerra erano i padri a seppellire i figli. Ripenso ai miei che mi insegnarono precocemente che le cose più importanti sono complesse. Niente è facile, glielo assicuro».
Cosa pensava di trovare e cosa ha trovato nella psicoanalisi?
«Lo scrittore Bruno Schulz condannò la psicologia alla mediocrità; alla fede nel conformismo e nella grigia legge delle formiche. Io pensavo di trovarci esattamente l’opposto».
C’è riuscito?
«Quello che ho capito è che il fine del lavoro psicologico – o almeno dell’analisi – è la ricerca non della guarigione (quello è lo scopo della medicina) ma del senso».
Freud e Jung, per limitarsi a due capiscuola, hanno dato versioni molto diverse della parola “senso”.
«La lettura sessuale, così dominante in Freud, ha una sua verità, ma rischia di essere riduttiva».
Rispetto a cosa riduttiva?
«Al mito. Che era ben di più di ciò che Freud pensava: un contenitore e non solo un contenuto».
L’espansione del ruolo del mito nello junghismo ha dato adito a sospetti di irrazionalismo.
«Peggio ancora che di irrazionalità parlerei di New Age e di kitsch. La fortuna del movimento ha contribuito alla sfortuna di Jung».
Perché? Dopotutto la grandezza di un pensatore è anche nella sua contraddittorietà; nel dare vita a cose molto diverse.
Non rientrano in queste zone gli interessi di Jung per la religione?
«Si è sempre interessato di teologia. Era figlio di un pastore. Riesco a seguirlo finché questo terreno coincide con la ricerca del senso. Mi sfugge quando fa affermazioni dogmatiche».
Perché dovremmo fidarci degli archetipi, non sono costruzioni arbitrarie?
«Non dobbiamo affatto fidarci. Immagini a cosa ha portato la manipolazione dell’archetipo eroico del XX secolo. Purtroppo gli archetipi – e i miti che su essi si costruiscono e i sogni in cui si manifestano – “ci agiscono”, che lo si voglia o no».
In che senso ci agiscono?
«Pensi all’innamoramento passionale. Può sconvolgere la nostra vita, anche se nessuno ce l’ha insegnato. E così, potrei dire per la passione politica. Omero – che fu il più profondo degli psicologi – dice che Zeus manda agli uomini sogni veri e sogni falsi. Intendo dire che non si debbono prendere alla lettera i sogni, gli archetipi, i miti. Dovremmo però essere coscienti della loro influenza su di noi. Prendere sul serio la loro potenza anche se sono irrazionali. Meglio, proprio perché sono irrazionali e sfuggono al nostro controllo, sarebbe bene conoscerli ».
C’è un’irrazionalità individuale e un’irrazionalità collettiva. Quest’ultima appare oggi oltremodo dilagante. Lei si è occupato, si occupa, di paranoie collettive. Intanto perché di questa sua predilezione?
«La paranoia mi sembra infinitamente più interessante delle altre patologie psichiche proprio perché può collegarsi alle crisi della società. Oggi, ad esempio, ci preoccupiamo delle nuove psicopatologie alimentari: ma un’anoressica affetta dal delirio di essere grassa non fonda un partito il cui programma è di pesare 30 chili».
Vuole dire che la sua resta una perversione individuale?
«Certo. Invece il delirio di Hitler secondo cui gli ebrei erano la causa dei mali del mondo divenne un programma politico. La paranoia – ha questo di caratteristico – si trasforma facilmente in infezione psichica collettiva ».
Dietro la paranoia si nasconde minaccioso il problema del
male.
«Per il paranoico il male corrisponde sempre ad altre persone che gli sono antipatiche o addirittura che non conosce ma elegge a nemico. Pensi agli immigrati: i dati dicono che senza di loro l’economia si fermerebbe, ma questo non impedisce che facciano paura».
E che sulla paura si possa ampiamente speculare.
«È sotto i nostri occhi il comportamento di certi politici. Ma la sola razionalità non ferma i pogrom o i linciaggi. Un discorso paranoico ha un potenziale seguito larghissimo: nutre quelli incapaci di autocritica. Il guaio è che in tempi particolarmente critici questi ultimi possono diventare la maggioranza».
C’è una relazione tra mass media e paranoia?
«Ci sono due aspetti: la stampa prima, i mezzi audiovisivi poi, ci hanno consegnato l’immenso regalo dell’informazione capillare. Ma per diventare di “massa” la comunicazione spesso semplifica il rapporto bene-male. Crea un capro espiatorio, un nemico pubblico. Tenga conto che questo fu lo stile e l’essenza del messaggio delle esperienze totalitarie».
E in democrazia?
«Parlerei di una “paranoia soft” che coesiste con il sistema democratico creando però disinformazione».
Jacques Lacan si occupò in maniera approfondita dei disturbi paranoici. Fu un personaggio singolare. Insolito, perfino nel panorama già mutevole degli analisti. Cosa pensa di lui?
«Non l’ho conosciuto. Indiscutibili furono il suo acume e le difficoltà insormontabili dei suoi pensieri. Ne ho letto qualcosa, conosco e stimo dei lacaniani: ma poco per dare valutazioni».
Sempre a proposito di personaggi appartenenti al suo mondo, si stagliò, in quello junghiano, la figura di Ernst Bernhard. Che ricordo ha di lui?
«Quando morì, nel 1965, non avevo ancora deciso nulla della mia vita. Non conobbi quest’uomo che ebbe in cura personaggi famosi come Natalia Ginzburg, Giorgio Manganelli, Federico Fellini. Ho il sospetto che appartenesse a quella parte della costellazione junghiana per me meno interessante. Non vorrei offendere i seguaci, ma è un’orma locale: fuori d’Italia non lo si conosce. Non ha lasciato scritti, se non occasionali, né idee».
Tra i suoi maestri citava Hillman.
«Lo conobbi superficialmente a Zurigo nel 1968. Ci rincontrammo vent’anni dopo. E fu diverso. Forse ero alla ricerca di padri autorevoli. La sua stima mi lusingò. Ammiravo la sua cultura, la capacità istantanea di vedere nessi e di tradurli in un discorso a 360 gradi. Aveva anche un lato semplice e terrestre. Viveva con un po’ di galline in un anonimo paesino del Connecticut, dove ha cucinato per me e mia moglie piatti tradizionali».
Del suo lavoro cosa pensa?
«Fu uno studioso affascinante. La sua “psicologia archetipica” ha trovato crescente ascolto, perché gli archetipi sono ciò che per definizione non varia».
In un mondo così mutevole diventano una certezza?
«Li desideriamo: siamo spaventati dalla velocità crescente con cui la tecnica, la cultura, l’economia cambiano il mondo intorno a noi. Il rischio è che l’eredità di Hillman potrebbe portare un po’ troppo il segno della compensazione ».
Ossia?
«A volte avrei desiderato che usasse di più il suo carisma per fronteggiare un male dell’oggi piuttosto che elogiare un bene senza tempo».
Male e bene un tempo cadevano sotto la legislazione divina. Crede, non crede?
«La fede è oggi soprattutto un fatto personale. La sua domanda, in un certo senso, può essere una conferma della “morte di Dio” e del fatto che lo abbiamo sostituito con un nostro protagonismo. Anche se io “sapessi” che Dio esiste questo avrebbe poca importanza. Più importante sarebbe: Lui sa che esisto io?».
Se così fosse oggi, forse, Dio si sdraierebbe sul lettino.
«Sarebbe la riprova che la sua azione aveva dei limiti. Che somigliava alle cose umane, dove alcune riescono e altre no».
Oggi più che in passato si contempla il fallimento. Dobbiamo ripensare la nostra idea di limite?
«Il limite è una presenza universale e anche un archetipo. Ma viene dimenticato nell’orgia del consumismo e nel culto unilaterale dello sviluppo economico. Il solo limite che non riusciamo a dimenticare del tutto è la morte ».
Con quali conseguenze?
«L’idea di morte è importante come presenza psichica, anche per chi ne è lontano. Con la vecchiaia poi i limiti materiali si avvicinano vertiginosamente. Ma proprio questo può favorire una concentrazione che produce consapevolezza e dare gioie più frequenti di quando si è giovani».
Ci crede davvero?
«Mi sforzo di pensarlo. Mi riguarda. So bene che il mondo è diventato un contenitore insicuro».