Repubblica 30.8.15
Colosseo
La bellezza antica di Venere signora di Roma
di Carlo Alberto Bucci
Alla fine, ciò che resta è la bellezza. Che prende vita già dai seni abbondanti, dai fianchi larghi, da quella sessualità essenziale che nelle Veneri del Neolitico accentua gli attributi della fecondità fino ad annullare (perché superflue) le fattezze del viso. E che si completa nel naturalismo di una Demetra in terracotta, qual è quella rinvenuta a Valle Ariccia, dove l’idea di abbondanza è trasmigrata nel volto di una dea che assomiglia a una donna comune, come quelle amate dai romani nel Terzo secolo a.C.
Ai due estremi della mostra “Terra Antica”, aperta al Colosseo fino al 10 ottobre, troviamo questi capolavori: all’inizio, le Veneri mediterranee grandi pochi centimetri e vecchie di migliaia di anni, con i seni e il sesso a disegnare semplici tondi ed essenziali triangoli nelle geometrie femminili delle statuette di Cabras o Senorbi (prestate dal Museo archeologico nazionale di Cagliari); e, dal capo opposto del torturoso percorso espositivo, la bellezza spudorata e discinta, racchiusa nei mille dettagli dell’acconciatura, del make-up e dell’abito, di Demetra/ Cerere nel busto conservato al Museo nazionale romano alle Terme di Diocleziano.
La mostra del Colosseo, curata da Maurizio Bettini e Giuseppe Pucci, ha un approccio multidisciplinare al tema della Terra, quale generatrice di miti e iconografie, oltreché, ab origine, della vita. L’esposizione insegue i molti segni e sensi - sulla superficie dell’humus e fin dentro le profondità dell’Ade - della “Terra dedala” che, scrive Lucrezio nel De rerum natura , «fa sbocciare fiori profumati » per Venere. Si tratta di una mostra a largo spettro, che fa leva sulla varietà propria - sottolinea Bettini - di “dedala Tellus”. E se è Dedalo, il mitico artista capace di animare le statue, il protagonista nascosto di questo racconto per immagini (75 in tutto i pezzi esposti), Venere è il vero motore della mostra romana. È la Dea Madre nelle varie manifestazioni della statuaria, come la statuetta del Museo dell’arte cicladica di Atene, o le teste di Cerere di Roma o Torino, a fare la differenza tra una mostra solo interessante e una anche attraente. E se per introdurre il tema della Terra quale “Fonte di oracoli e madre dei sogni” (saggio in catalogo di Chiara Terranova) soccorre la bellezza di una ceramica a fondo bianco (da Monaco di Baviera) con la squisita linea che delinea la figura di Hermes, per descrivere i “Sotterranei del maleficio: le Tabellae defixionum” bastano le brevi frasi vergate con odio in pochi centimetri di piombo e affidate dai romani alla terra come conduttrice di messaggi di questo tenore: «Come il morto che è qui sepolto non può né parlare né dissertare, così Rhodine che è con Marco Licinio Fausto, morta sia, né possa parlare né dissertare».
La terra divinizzata, erotizzata e resa idillio ma, nella realtà quotidiana, sfruttata già dagli antichi romani, fino all’esaurimento delle risorse boschive, minerarie, faunistiche (come spiega bene Pucci nel suo scritto), viene risarcita nell’aspetto paesaggistico superstite dalle belle foto in bianco e nero piazzate lungo il percorso espositivo e opera di artisti quali Gabriele Basilico, Marina Ballo Charmet, Mimmo Jodice, solo per citare alcuni dei fotografi scelti da Roberta Valtorta.
Uno sforzo critico e organizzativo di questo tenore avrebbe, in conclusione, meritato spazi più ampi e felici delle sacrificate sezioni ricavate negli ambulacri del Colosseo, attraversati dal numeroso e rumoroso pubblico dell’anfiteatro Flavio: frotte di turisti attratte quasi solo dall’eco lontana dell’arena e sorde al richiamo della bellezza di Venere e dalla generosità di Tellus.