Repubblica 29.8.15
L’immagine al potere quando la storia diventa icona
Dall’oro del Nuovo Mondo di Cortés al frontespizio del “Leviatano” di Hobbes fino a “Guernica” Le origini della nostra società visiva nel nuovo libro di Carlo Ginzburg
di Antonio Gnoli
cinque saggi che Carlo Ginzburg dedica all’iconografia politica — titolo “Paura reverenza terrore” — inaugurano “Imago”, la nuova collana dell’Adelphi. Ho chiesto all’editore, Roberto Calasso il perché di una scelta così azzardata in un tempo in cui tutto è immagine. Poi, a lettura compiuta, capisco quanto l’immagine sia ricca di residui inesplorati, di zone opache, di enigmi e di affascinanti soluzioni. Ginzburg ci ha messo di fronte a tutto questo. Ha guardato con gli “occhiacci” dello storico il farsi di alcune vicende, apparentemente di dettaglio, in realtà fondamentali per capire come la ricerca iconica sia parte integrante di un processo più generale che investe la politica e, in un certo senso, l’attualità. Ma cosa si deve intendere con parole oggi così usurate? Ginzburg non ignora certamente il presente. Da storico conosce le difficoltà insormontabili di volerlo ingabbiare e spiegare: «Qualche volta», scrive, «bisogna cercare di sottrarsi al rumore incessante delle notizie che ci arrivano
da ogni parte. Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Oppure, ricorrendo a una metafora diversa: dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, come se lo vedessimo attraverso un cannocchiale rovesciato». Rileverei qui due motivi spaziali: l’obliquità e la distanza. Traduco: non c’è una via diretta per conoscere ciò che ci sta accadendo e, soprattutto, solo allontanandoci dal fuoco dell’azione possiamo sperare di afferrarne il senso. È un’indicazione di metodo e di sostanza storiografica che questi saggi ci consegnano. Di che cosa parlano?
Ginzburg esamina cinque situazioni storiche in cui centrale risulta essere l’immagine. Nel primo analizza una coppa di argento dorato, eseguita da un artigiano di Anversa ai tempi dei conquistadores. Dono diplomatico di Margherita d’Austria al Re di Francia. Materia per specialisti di arti minori, verrebbe spontaneo pensare. In realtà, attraverso il prezioso oggetto Ginzburg ci mostra come le sue immagini velano e svelano al tempo stesso l’efferata conquista spagnola, al seguito di Cortés. La coppa è decorata da scene che illustrano l’avventura del Nuovo Mondo ed è realizzata in uno stile ibrido che richiama figure della mitologia greca e romana. Nascondendo al tempo stesso le crudeli e sanguinarie responsabilità dei conquistadores verso i nativi americani. Memoria e distanza possono diventare strumenti del potere.
Il secondo e il terzo saggio pongono al centro il rapporto tra religione e politica. In uno Ginzburg esamina l’immagine disegnata sul frontespizio del
Leviatano di Thomas Hobbes. Per il filosofo dell’assolutismo il potere politico presuppone la forza, ma da sola essa non basta a fondare lo Stato. Necessita della paura e della soggezione. Ossia di quegli ingredienti con cui anche la religione ha in passato trionfato. Hobbes è all’origine della teologia politica.
Paura, terrore, disorientamento, sono anche i sentimenti che attraversano il nostro attuale sentire. Ginzburg avverte che il mondo nel quale viviamo è per molti versi simile a quello descritto nel Leviatano . Hobbes immaginò che per uscire dall’anarchia e dal terrore dello Stato di Natura occorresse rinunciare alla propria libertà individuale. Faremmo anche noi lo stesso se il pianeta fosse in pericolo? Se l’estinzione minacciasse la più potente delle specie esistenti, cioè l’uomo? Accetteremmo, si chiede Ginzburg, un Leviatano infinitamente più potente di quelli del passato? Un futuro ipotetico — aggiunge lo storico — che speriamo non si verifichi mai.
Nell’altro saggio si esamina il quadro con cui David effigiò l’ultimo respiro di Marat. La posta in gioco, nota Ginzburg, era per David non solo artistica ma politica. Egli cristianizzò un frutto maturo dell’illuminismo creando il culto del rivoluzionario. La “venerazione” di Marat (il suo cuore deposto sull’altare) sembrerebbe in palese contraddizione con i contenuti dell’azione politica, ma quando può, «il potere secolare si appropria dell’aura della religione». La divinizzazione dell’”incorruttibile” fu pienamente compresa da Baudelaire.
Infine gli ultimi due saggi relativi a due immagini potenti del Novecento: Il manifesto con cui Lord Kitchener — alla vigilia della Prima guerra mondiale — richiamò la gioventù inglese alle armi. Quell’immagine mise in moto la potente macchina bellica e Ginzburg ne analizza due dettagli: lo sguardo di Lord Kitchener e il suo dito puntato verso l’osservatore. Di entrambi i particolari segue l’evoluzione, ma anche i precedenti. L’uso della tradizione ma al tempo stesso la forte capacità di innescare un meccanismo imitativo: il richiamo a Caravaggio (non solo) ma altresì la sorprendente riutilizzazione di quella immagine in chiave pubblicitaria, o in quella più terrorizzante del “Grande Fratello”. Infine, l’ultimo dei saggi (forse il più sorprendente) dedicato a Guernica .
Non è facile riportare la ricchezza di tutti i passaggi. Vi basti sapere che l’idea che Guernica (il quadro o meglio il murale fu esposto la prima volta nel 1937) è tutt’altro che la semplice testimonianza contro la guerra e il fascismo. Scopriamo, in conclusione, una relazione poco nota tra Picasso e Georges Bataille.
Il ruolo fondamentale che il filosofo francese — con la sua mitologia privata e fascinazione per il fascismo — ebbe nelle diverse versioni di Guernica . Come dire: le cose non sono mai quelle che si vedono.
Che cosa vediamo? Immagini naturalmente. Di esse lo storico non può fare a meno. Ginzburg ha presente la grande lezione di Aby Warburg e l’elaborazione del concetto di Pathosformeln , le formule del pathos, con cui il grande storico dell’arte ritrovò un filo comune nella storia delle immagini, da quelle classiche del mondo antico alle più recenti: certi gesti primordiali, che l’arte classica immortalò sotto il segno del mito, sopravvissero grazie anche alla commozione che suscitarono e che, come un fiume carsico, seppero trasmettere alle epoche successive.
Una costante nel lavoro di Ginzburg è la centralità dell’immagine (basti pensare allo straordinario lavoro che nei primi anni Ottanta dedicò a Piero della Francesca). L’immagine, come ponte tra memoria (visiva) e distanza, va in soccorso dei documenti scritti, illumina fonti nascoste, rivela, in qualche modo, l’irrivelabile.
Cos’è che non si può rivelare e che pure viene dischiuso dallo sguardo dello storico? Sospettiamo sia il reincantamento, tra falso e vero, del mondo moderno. È una conclusione che andrebbe approfondita. Rappresentando una delle traiettorie principali dell’importante lavoro di Ginzburg.