giovedì 27 agosto 2015

Repubblica 27.8.15
Bryce, il Jihadi John della Virginia che voleva vendetta in mondovisione.
L’ex reporter afroamericano, licenziato dall’emittente, ha cercato la migliore inquadratura per farsi giustizia. Per il proprio fallimento come giornalista E per combattere il razzismo
di Vittorio Zucconi


WASHINGTON IN UNA perfetta composizione di tutto ciò che di tragico e di demenziale fermenta nel ventre della società contemporanea ed esplode in America più che altrove, l’omicidio a freddo di una giornalista e di un cameraman in Virginia racconta il tempo della follia esibizionista globale.
Ci sono, negli otto colpi di pistola sparati da un ex reporter afroamericano di una stazione tv locale in Virginia, a poche ore di strada dalla capitale Washington, tutti i pezzi del mosaico impazzito: la televisione, la Rete, i selfie, i social, il razzismo, la diretta, il narcisismo criminale, la paranoia, in un quadro che si completa con l’immancabile arma da fuoco. E appare quasi paradossale che, per un delitto mediatico di questo genere, in America si sia scatenato un dibattito sull’opportunità di mostrare o meno il video integrale.
A parte vaghe accuse di “razzismo” contro una delle due vittime dello sparatore, la (inevitabilmente) bionda e giovanissima reporter della stazione Wdbj7 Alison Parker, appena 24enne, e il suo cameraman Adam Ward, l’omicidio trova il proprio vero movente nella convergenza di tutti gli elementi che i delitti di questo tipo cercano. La pubblicità. L’intervista alla direttrice della Camera di Commercio su un nuovo shopping center durante un telegiornale, dunque un classico servizio di “bianca” da giornalismo locale senza speciali rilevanze e senza rischi, era in diretta, controllato dallo studio centrale, garanzia che la sequenza sarebbe stata trasmessa, registrata e rilanciata all’infinito.
Per non correre rischi, l’assassino, lui stesso un ex reporter afroamericano licenziato di recente, ha ripreso il doppio omicidio con lo smartphone per rilanciarlo su Facebook e Twitter e la sequenza mostra come lui abbia cercato, con l’esperienza professionale, la migliore inquadratura per immortalare l’espressione di terrore sbigottito sul volto della povera donna quando lei capisce.
Dunque lo sparatore, Vester Lee Flanagan in arte Bryce Williams, morto in ospedale dopo avere tentato il suicidio, voleva fare “il pezzo”, il servizio. E farsi giustizia, per il proprio fallimento come reporter, avvolto nella pretesa di combattere il razzismo che sta riaffiorando nelle sparatorie e negli omicidi di polizia.
Tutto si tiene e s’incatena e si alimenta in questo gesto che sarebbe stato, senza il moltiplicatore infinito della nuova ipermedialità assoluta, il crimine non infrequente dell’impiegato rancoroso che si vendica dei propri “persecutori” sparando contro colleghi e superiori. O i delitti del “serial killer” che cerca l’attenzione di un titolo e si crogiola nella paura altrui e nella caccia.
Ma la quantità dell’esposizione globale, calata nel brodo tossico della violenza in bianco e nero che in questo 2015 sta squassando l’America del primo presidente afroamericano, rende esemplare, e specialmente preoccupante, questo delitto.
Tutto si tiene e tutto si collega, nell’universo continuo della medialità assoluta. La teatralità oscena degli sgozzamenti di ostaggi o di nemici, che i macellai dell’Is ostentano, non ha altra motivazione che l’eco immediata che la Rete offre alla loro propaganda e nessun blackout può fermare.
Flanagan, l’assassino di Roanoke che conosceva i vecchi e i nuovi meccanismi della comunicazione istantanea e virale, è un po’ il “Jihadi John della Virginia”, impegnato nella propria vendetta e guerriglia contro il nemico, che lui vede nella donna bionda e bianca, nei boss della stazione che l’hanno espulso dal paradiso artificiale della tv. E al momento di spararsi, dopo avere sparato, Flanagan aveva imboccato l’autostrada 66, che conduce direttamente a Washington, chissà se con altri “show” in mente.
Roanoke, la cittadina di quasi centomila abitanti dove è avvenuto il delitto, è nella Virginia meridionale ai piedi dei Monti Appalachi, quella “terra di mezzo” fra il profondo Sud e il Nord dove il liberalismo dei sobborghi di Washington incontra i risentimenti della mai sconfitta Confederazione.
Qui, in Virginia, si resistette più che in ogni altro Stato americano alla legalizzazione dei matrimoni razziali misti, fino ai tardi Anni ‘60. Non meraviglia dunque se in questa penombra sociale e culturale covi un reciproco odio razziale che può accendere la miccia della follia in una persona già evidentemente disturbata. Ma la domanda che il doppio omicidio impone è, se in assenza di tanta enorme esposizione mediatica, Flanagan avrebbe pianificato, compiuto e ripreso l’assalto.
Come tutti, in America e non solo, anche lui è stato insieme vittima e carnefice della visibilità assoluta. Aveva certamente visto e scaricato le clip che da tempo riprendono gli omicidi di polizia su persone di colore fermate o arrestate.
Anche lui aveva visto in quei morti, nell’arroganza di troppi agenti e dirigenti di polizia, la manifestazione di una prepotenza che la medialità invasiva del nostro tempo ha reso finalmente visibile dopo generazioni di oscuramento. E ha avuto una reazione criminale, insensata, ma anche profondamente americana nella sua demenza, quella di chi pensa di dover “fare qualcosa”, di dover agire da individuo, da persona, nella impotenza o nella indifferenza della collettività, per “make things right”, per rimettere le cose a posto. Prendi la pistola, Flanagan.
Alison, la reporter uccisa in diretta che il fidanzato che da due giorni era andato a vivere con lei ha pianto su Twitter, era stata accusata di razzismo, indagata dalle autorità e scagionata. Ma le colpe dei padri, il male di generazioni, cadono a cascata sul nostro tempo e confluiscono nell’oceano globale e tentatore del narcisismo assassino.