venerdì 21 agosto 2015

Repubblica 14.8.15
Tra il metodo di Cartesio e l’eresia di Spinoza
Tra fiamminghi e tulipani neri
Calcolando i canali pitagorici di Amsterdam
di Piergiorgio Odifreddi


A UN matematico la mappa del centro rinascimentale di Amsterdam ricorda immediatamente la genesi figurata dei numeri pitagorici. I suoi canali, infatti, si espandono gradualmente dal lungomare verso l’entroterra, e i tre principali (Herengracht, Keizersgracht e Prinsengracht, ovvero i canali dei Signori Reggenti, del Re Massimiliano d’Asburgo e del Principe Guglielmo d’Orange) appaiono come spezzate esagonali inscritte in semicerchi crescenti, a testimonianza e memoria della pianificazione urbana intrapresa ad Amsterdam tra la fine del Cinquecento e il Settecento. I tre canali principali e gli innumerevoli secondari sono percorsi da un via vai di imbarcazioni. Una rete di ponti collega le loro rive, sulle quali si affacciano i caratteristici edifici monumentali della città. Molti di questi risalgono al periodo d’oro dei Paesi Bassi, nel quale la città fu il centro intellettuale di un paese che, a sua volta, lo era dell’Europa. È proprio in Olanda che, come racconta Steven Nadler in Il filosofo, il sacerdote e il pittore (Einaudi, 2013), Cartesio visse i vent’anni produttivi della sua vita filosofica, muovendosi continuamente da una città all’altra, e soggiornando in particolare a lungo anche ad Amsterdam. È in quei vent’anni che egli compose le opere che iniziarono la filosofia moderna: il Discorso sul metodo (1637), le Meditazioni (1641) e i Princìpi di filosofia (1644). Ed è a Utrecht e Leida, negli anni intercorsi fra la pubblicazione degli ultimi due libri, che scoppiò la querelle sul suo pensiero, correttamente accusato di essere incompatibile con la filosofia antica e la teologia. Fortunatamente per Cartesio, i processi accademici intentati contro di lui non ebbero le conseguenze traumatiche di quello inquisitorio a Galileo di una decina di anni prima, ma mostrarono che il germe dell’intolleranza religiosa infettava anche un paese per molti versi liberale e progressista come l’Olanda. Come racconta lo stesso Nadler in Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento (Einaudi, 2002), andò invece peggio a Spinoza, che nel 1656 dovette subire ad Amsterdam l’ostracismo della comunità ebraica nella sinagoga dell’Houtgracht: un canale interrato a fine Ottocento per far posto alla Waterlooplein, la Piazza di Waterloo, sulla quale si trovano da allora il Municipio, il Teatro dell’Opera e il mercato delle pulci. Il processo a Spinoza fu l’analogo olandese di quello a Galileo, e culminò in un cherem letto solennemente in ebraico, nel quale il ventiquattrenne filosofo veniva «scomunicato, espulso e dannato » per le sue «abominevoli eresie». Egli fu «maledetto di giorno e maledetto di notte, maledetto quando si sdraia e maledetto quando si alza, maledetto quando esce e maledetto quando entra». E venne proibito a chiunque di «comunicare con lui, accordargli alcun favore, stare sotto il suo stesso tetto, avvicinarglisi e leggere qualunque suo scritto». La differenza dell’Olanda con l’Italia, però, era che gli intolleranti religiosi non vi detenevano il potere politico. La scomunica allontanò dunque Spinoza dalla comunità ebraica, ma non gli impedì di guadagnarsi la vita come tornitore di lenti e di scrivere libri che continuarono la rivoluzione filosofica iniziata da Cartesio: il Trattato teologico-politico (1670) e l’ Etica (1677). Ovviamente entrambi scatenarono polemiche e reazioni fra i protestanti e i cattolici, in particolare per la loro identificazione di Dio con la Natura. E il primo venne definito Un libro forgiato all’Inferno: un’espressione poi usata da Nader come titolo di un altro dei suoi saggi (Einaudi, 2013). L’autore dell’espressione era un nemico del Gran Pensionario Jan de Witt, che gli imputava appunto di tenere nella sua biblioteca il Trattato: «un libro forgiato all’Inferno dall’ebreo apostata Spinoza, a quattro mani con il Diavolo, e pubblicato con la consapevolezza e la connivenza di De Witt». Quest’ultimo era un valente matematico: dunque, uno dei pochi leader politici storici con una formazione scientifica, insieme all’irlandese Éamon De Valera (matematico pure lui), la britannica Margaret Thatcher (chimica), la tedesca Angela Merkel (fisica) e l’argentino papa Francesco (chimico). La cultura matematica di De Witt non gli impedì comunque di cadere in disgrazia e di terminare un ventennio di potere repubblicano alla maniera di Mussolini: fu appeso a testa in giù il 20 agosto 1672, insieme al fratello Cornelis, dopo essere stato linciato e fatto a pezzi dalla folla all’Aia. Quattro anni dopo Gottfried Leibniz visitò Spinoza e questi gli raccontò che quella notte avrebbe voluto andare sul luogo dell’eccidio a deporvi la scritta ultimi barbarorum, «peggio dei barbari», ma fu fermato da un amico sensato. Un quadro coevo che mostra I cadaveri dei fratelli De Witt, attribuito a Jan de Baen, si può vedere oggi al Rijksmuseum, la cui straordinaria collezione di arte fiamminga costituisce uno dei punti di attrazione di Amsterdam. I pezzi forti del museo sono le opere di Rembrandt e Vermeer: fra tutti, l’imponente Ronda di notte (1642) del primo, di quasi sedici metri quadrati, e la robusta Lattaia (1660) del secondo, dieci volte più piccolo. A complemento del maestoso Museo Statale, il più intimo Museo Rembrandt permette di curiosare nella casa in cui il pittore visse e nello studio in cui lavorò. Traboccante, quest’ultimo, di oggetti di ogni genere usati come riempimento dei suoi quadri: dalle armature e i busti, alle conchiglie e le corazze di tartaruga. Rembrandt e Vermeer prosperarono nel periodo della “Vera Libertà”, come venne chiamato il governo di De Witt, e non gli sopravvissero: il primo morì tre anni prima di lui, e il secondo tre anni dopo. Quanto al Gran Pensionario, la storia della sua morte è raccontata nella prima parte del romanzo di Alexandre Dumas Il tulipano nero (1850), che tratta della passione nazionale degli olandesi: la coltivazione del fiore importato dai fiamminghi dall’Oriente, e che per la sua forma prende il proprio nome dal turco tülbend, “turbante”. Una breve gita da Amsterdam porta a Keukenhof, nei pressi di Harleem, dove cinque milioni di tulipani distribuiti su trenta ettari di coltivazioni accolgono, nel breve periodo della fioritura primaverile, centinaia di migliaia di visitatori. Lo spettacolo dei loro colori umilia la tavolozza di qualunque pittore: compresa quella di Van Gogh, il cui museo costituisce una delle attrazioni più visitate della capitale, anche a causa della mitologia romantica sugli impressionisti, in generale, e sullo squilibrato e sfortunato artista, in particolare. Nessuno dei tulipani esibiti a Keukenhof è completamente nero: cioè, senza alcuna striatura di colore, come quello della fantasia letteraria di Dumas. Ma la mania tutta olandese per i bulbi descritta nel feuilleton è reale, e raggiunse il culmine qualche anno prima del periodo in cui esso è ambientato. La coltivazione dei tulipani iniziò nei Paesi Bassi negli ultimi anni del Cinquecento, e in poco tempo i prezzi di mercato salirono vertiginosamente, fino a quando i bulbi più ricercati raggiunsero il prezzo di una casa o di un terreno. Il record fu raggiunto dal Semper Augustus, venduto nel 1635 all’equivalente di sessanta tonnellate di burro. La bolla speculativa fu alimentata anche da quello che venne appropriatamente chiamato il “commercio del vento”: cioè, la vendita di bulbi inesistenti, basata sulla sola intenzione di piantarli. Se la cosa suona familiare, è perché lo è: si trattava infatti di una versione dei moderni derivati, e in particolare dei future del passato. Nel febbraio 1637 la cosa finì come si può immaginare: con lo scoppio della bolla, il crollo del mercato e la conseguente rovina degli allocchi che avevano impegnato tutto ciò che avevano in una vuota speculazione. Le vicende dei tulipani sono tornate alla ribalta agli inizi del nuovo millennio, quando la simile bolla dei subprime è scoppiata nel 2006 e ha scatenato una crisi finanziaria ed economica di cui ancor oggi portiamo le conseguenze: un parallelo che il film Wall Street. Il denaro non dorme mai di Oliver Stone (2010) stabilisce esplicitamente. Una gita ad Amsterdam può dunque servire anche da salutare memento della stupidità umana, contro la quale sia il pensiero di Cartesio e Spinoza, sia l’arte di Rembrandt e Vermeer, rimangono purtroppo impotenti.