venerdì 21 agosto 2015

Repubblica 14.8.15
Colloquio con il filosofo Gennaro Sasso
“I simboli danno ordine al mondo ma sono falsi”
La nostra realtà è costruita sugli ordini simbolici. Senza di essi ci sarebbe disordine e smarrimento.
di Antonio Gnoli


Mi sentirei disorientato all’idea di vivere in un mondo senza simboli. So che non potrei fare a meno di quel vasto e squillante repertorio di frasi, di oggetti, di memorie che sono entrati — più o meno di diritto — nella nostra vita quotidiana. A volte la regolano, altre ancora la incatenano. Perciò, quando ho letto il nuovo libro di Gennaro Sasso, “Allegoria e Simbolo” (edito da Aragno), ho provato un senso di sgomento per la forza demolitoria con cui egli attraversa l’universo simbolico. Dello stesso autore mi era anche capitato tra le mani un denso libretto su Dante (“La lingua, la Bibbia, la Storia”, Viella editore) e, verrebbe da dire, chi più del poeta ha goduto di interpretazioni allegoriche?
Dunque da dove ha origine la palese ostilità verso queste due figure retoriche? E benché argomentata, ho pensato che non fosse poi così giusta la critica di Sasso. I poeti, ma anche i teologi, non disprezzano le allegorie. E, quanto a noi, viviamo immersi in un mondo simbolico. Non fu la nascita dell’ homo
symbolicus a cambiare il rapporto con il mondo e a farlo uscire dal caos nel quale versava? L’attuale crisi di questa figura — il suo evidente indebolimento antropologico — dovrebbe farci riflettere sulla sua esistenza. Meglio, sul suo futuro. Controbatte Sasso: «Il mio discorso non è tanto su come i simboli agiscono nel mondo e nella storia. Bensì sulla loro tenuta concettuale ».
Come definiresti allegoria e simbolo?
«L’allegoria è il risultato della combinazione di due parole. Di due significati. Una, quella che sta sopra, spiega quella che sta sotto. Un po’ come accade nella metafisica, per cui la parola più importante — Dio, l’Essere, la Sostanza, la Verità — giustifica e fonda quelle meno essenziali ».
Spiega le parole del nostro mondo. Le nostre opinioni.
Una efficace allegoria, da questo punto di vista, è il Mito della caverna di Platone.
O quando Dante con la parola “cielo” spiega la parola “scienza”.
«Allegoria e simbolo sono strutture relazionali. Cioè mettono in relazione parole o situazioni differenti».
E questa pretesa relazionistica, tu dici, non ha alcuna giustificazione necessaria?
«Se la metafisica fallisce proprio in questa pretesa, perché dovrebbe riuscire all’allegoria o al simbolo? A me, lo ribadisco, non interessava vedere come il simbolo si dispiega nel mondo e nella storia bensì analizzare la sua contraddittorietà che si manifesta fin dall’origine ».
Spiegati meglio.
«Non vi è nessuna relazione necessaria tra l’idea che il simbolo esprime e la sua realizzazione pratica. La connessione tra i due momenti si risolve in un’alterità irrisolta. Per l’allegoria il discorso è un po’ diverso. La sua difficoltà è tutta filologica. Se la superi si può anche colmare la distanza tra i due momenti».
Nell’allegoria è sufficiente perciò conoscere o ricostruire le intenzioni dell’autore?
«Fino a quando non si capisce cosa l’autore intendesse dire, la parola alta e bassa non si saldano. Comunque nell’allegoria si pone un problema ermeneutico. Più tragico è invece il destino del simbolo».
Perché?
«Per il semplice motivo che il simbolo pretende di mettere in relazione un’idea astratta — per esempio la virtù, il coraggio, la bellezza — con il concreto, ossia con un ricettacolo finito, che a sua volta, grazie alla sollecitazione dell’idea, acquista valore universale».
Il passaggio dall’idea alla cosa, sostieni, è una relazione fallita?
«Come può l’astratto trasformarsi in concreto?»
È universalmente comprensibile che il simbolo dell’astuzia è la volpe; così come il simbolo del coraggio è il leone.
«Come queste due cose possano stare assieme è inspiegabile ».
Eppure accade. La relazione, malgrado tutto, sussiste.
«Si tratta dell’enigmaticità di un incontro tra due momenti che non potrebbero mai relazionarsi ».
«Non lo nego. Ma ciò che a me interessava indagare era un altro aspetto che non considero affatto secondario: non lasciare intatta l’illusione che l’elaborazione simbolica sia un accesso al problema della verità».
Verità e simbolo non stanno insieme?
«Non possono. Il simbolo condivide con la metafisica la medesima struttura concettuale. Entrambi hanno fallito sul piano veritativo ».
Diciamo che la metafisica ha fallito un po’ più del simbolo.
«Non c’è dubbio che il simbolo esprima una sintesi più pratica. Quando si vedono ergere, su alcuni cornicioni dei monumenti parigini, le vittorie alate, con quelle ridicole ali dorate, è chiaro il riferimento a un simbolo del potere. E tuttavia la vittoria — come concetto astratto — non ci sta dentro l’immagine dell’aquila».
Ci sta e non ci sta. Se si provasse a ricostruire la storia di quell’immagine forse si capirebbe perché essa sia diventata il simbolo del potere.
«Per quanto si possa agire su questo piano — e mi viene in mente la grande ricerca che in tal senso seppe sviluppare Aby Warburg — resta l’enigmaticità del simbolo».
Anche Marx se ne era reso conto quando parla del “geroglifico della merce” intendendo proprio l’enigmaticità dell’allegoria.
«Marx è un critico della società simbolica. Come lo è, per un altro verso, Lutero di quella religiosa. In Lutero l’istanza anti- allegorica è impressionante. La sua critica all’eucaristia è di una brutalità perfino sconcertante: la carne è carne, il sangue è sangue. Non si assumono dei simboli dal corpo di Cristo. È una disputa fortissima, perfino con i suoi».
Che cosa nasconde questa tua opposizione alla realtà simbolica? Cos’è che non va al di là degli aspetti concettuali?
«La mia avversione, se così la si può chiamare, nasce dalla convinzione che i simboli producono violenza. Anche quelli più innocui o solidali possono scatenare fanatismi insospettabili. E ciò accade quando all’universalizzazione del simbolo attribuiamo un valore di verità assoluta».
Penso che a tenere in piedi un simbolo sia la fede e un certo conformismo.
«Se posso dire: la cosa mi fa un certo orrore».
Non è più interessante capire la loro efficacia?
«Quando parli di efficacia del simbolo è come se tu lo assumessi già tutto costituito. Ma questo non spiega perché i suoi termini stanno insieme. E l’impressione che ne ricavo è che nel simbolo si nasconda la morte. Pensaci. Ci sono due parti che non si toccano. E creano una zona neutra. Che cos’è? Che cos’è questa zona che si sottrae all’astratto e al determinato? Non è qualcosa che ha a che fare con la morte?»
Enzo Melandri tenne un ciclo di lezioni contro il simbolico (poi raccolte e pubblicate da Quodlibet). In quelle pagine sosteneva che è vero che il simbolo rimette in ordine il mondo, ma per riuscirci deve irrigidire la realtà, toglierle la vita.
«Melandri pensava che il simbolo era lo strumento che dava la morte, non che avesse in sé la morte. Immaginò di disincagliare il simbolo risalendo alle sue origini. Ma in quella vitalità originaria era già scritto il suo certificato di morte».
I simboli ti creano disagio?
«Potrei darti una risposta psicologica: ho un carattere tendenzialmente anarchico, incapace, almeno in parte, di stringere relazioni, di entrare in gruppi e condividerne gli obiettivi. Sono diventato antifascista da solo, marciando sul Lungotevere, come un imbecille, vestito da Balilla. Fu allora che cominciai a odiare una certa simbolicità. Ma questo è un piano semplicemente personale».
Odio e amore provano quanto i simboli ci coinvolgano.
«È vero. Con la precisazione che io non amo la loro forza irrazionale ».