La Stampa 30.8.15
Perché il mondo ha paura se la Cina smette di crescere
L’economia si ferma senza gli acquisti del primo consumatore di materie prime
di Francesco Semprini
La picchiata del Dragone sta facendo tremare i Paesi produttori di materie prime, a causa della caduta dei prezzi, ma la «golden share» cinese sui larghi consumi delle commodity, dall’alluminio all’olio di soia, passando per il petrolio, indica che Pechino avrà ancora per molto tempo il potere di plasmare questi mercati. Ne sono convinti gli analisti, i quali vanno oltre gli effetti di breve termine sui mercati finanziari e delle materie prime dell’attuale patologia cinese. Pechino oggi acquista circa un ottavo del greggio venduto nel mondo, un quarto dell’oro, quasi un terzo del cotone, sino alla metà dei principali metalli presenti sulla tavola di Mendeleev. Il suo potere di acquisto ne ha fatto una potenza in grado di influenzare qualsiasi aspetto dello scambio di commodity, dal livello dei prezzi alle ore che i trader dei mercati competenti devono lavorare. Inoltre la vivacità sul lato della domanda, figlia di un Pil sino a poco fa con crescita a due cifre, ha stimolato l’affluenza di altre materie prime e prodotti, dall’oro ai fertilizzanti.
Prezzi in caduta libera
E’ innegabile che i prezzi sono stati protagonisti di cadute libere in questi ultimi mesi, il greggio è sceso ai minimi dal 2009, sotto quota 40 dollari al barile (Wti), il rame e l’alluminio hanno polverizzato il 20% del loro valore dall’inizio dell’anno. Per alcuni osservatori tuttavia non è vero che la domanda cinese è crollata alla stessa velocità. «Se si guardano i valori delle importazioni di commodity degli ultimi mesi, si nota che sono state piuttosto robuste - dice al Wall Street Journal Tom Pugh di Capital Economics -. In molti hanno capito che la Cina non crescerà più al tasso del 10% e questo ha avuto ricadute sul trading».
Effetto psicologico quindi, il solito teorema che «sugli scambi pesano le attese sulle attese». E’ pur vero che il Pil cinese ora è ridimensionato al 7%, e molti puntano l’indice sulla non trasparenza di Pechino, alludendo a manipolazioni statistiche, ma persino la Us Energy Information Administration è convinta che, nonostante la riduzione della crescita di consumi di oro nero della Cina, il Paese contribuirà anche per quest’anno per oltre un quarto all’aumento della domanda di petrolio. Per quanto riguarda il rame, i consumi sono del 48% con una crescita annuale del 7,5% dal 2010 al 2014, percentuale destinata a scendere al 3% all’anno sino al 2020, secondo Deutsche Bank. Per l’alluminio scenderanno dall’8-10% al 5-6% nei prossimi 10 o 15 anni. Ma è pur vero che si ragiona su cifre gigantesche in termini assoluti, oltre al fatto che miniere, raffinerie e industrie estrattive hanno sovrastimato la crescita della domanda globale, in particolare della Cina, e questo ha portato sul mercato extra-capacità.
In alcuni casi ci sono poi le dinamiche specifiche, ad esempio è previsto che la Cina accrescerà del 10% la domanda di potassa, un fertilizzante, a 20 miliardi di dollari. Secondo Scotiabank però la fornitura globale aumenterà del 30%, e questo riduce la quota proporzionale della Cina.
L’ora dei consumi interni
C’è infine da valutare un altro aspetto, il Dragone è una potenza basata soprattutto sulle esportazioni, ma prima o poi dovrà dare avvio alla mutazione che da più parti viene auspicata, ovvero a economia orientata sui consumi interni. E gli analisti sono già al lavoro per capire chi ne beneficerà: gli esportatori delle cosiddette «soft-commodity», come cacao e caffè, ne potrebbero uscire rafforzati grazie all’aumento della ricchezza media delle famiglie cinesi e della domanda di beni di consumo di migliore qualità. Inoltre la crescita dei consumi interni potrebbe portare a cambiamenti sull’export e per i partner commerciali della Cina. Come e quali si vedrà, la certezza diffusa in ogni caso è che sulle materie prime la Cina è «ben trincerata» e la sua «golden share» della domanda farà sentire ancora effetti, non solo sui mercati finanziari.