mercoledì 26 agosto 2015

La Stampa 26.8.15
Da qui il capo partigiano sparava sui nazisti coprendo la fuga dei suoi
La Cima Dodici, un belvedere sul cuore delle Dolomiti
di Marco Albino Ferrari


Alle sei di mattina di sabato 30 settembre 1944, per Tilman e per i partigiani attestati in quei magnifici catini erbosi a duemila metri chiamati buse stava iniziando la giornata tanto attesa e temuta. La sera prima i tedeschi erano arrivati in quota dopo aver rastrellato l’intero versante meridionale della montagna e avevano deciso di attendere il nuovo giorno al Passo delle Vette Grandi, porta d’accesso a una vasta busa. Mentre la Busa di Pietena, dove si trovava il grosso dei partigiani, stava oltre un’alta e strategica cresta divisoria. Cresta ancora (ma non per molto) ben presidiata.
A niente erano servite le insistenze di Tilman durante il consiglio di guerra della sera prima. Secondo il Maggiore inglese conveniva abbandonare Pietena, facendo perdere le tracce al nemico: «I partigiani dovrebbero colpire e dileguarsi, non difendere il territorio - aveva detto - le nostre munizioni ammontano a 300 colpi per ogni pistola e 30 per ogni fucile e abbiamo viveri per pochi giorni». Ma niente da fare: il Comandante Bruno aveva agito sull’orgoglio dei suoi uomini, dicendo che non sarebbe arretrato di un metro. E tutti nella malga lo avevano osannato, pronti a morire per difendere le buse. «Se vuole, Maggiore, vada pure prima che sia troppo tardi» era intervenuto il Comandante davanti a tutti. Tilman, a quel punto, aveva deciso di rimanere al fianco dei partigiani.
La sfida
Ora Bruno, accanto a Tilman, sorseggiava il caffè di cicoria fissando il tavolo. Aveva ancora il viso gonfio dal sonno, e i capelli pieni di pagliuzze di fieno. Ma già i suoi occhi correvano veloci da una parte all’altra della stanza, forse cercando una risposta che dentro di sé non aveva ancora trovato. Come fare a difendere la Busa di Pietena? «Dobbiamo attendere di capire dove tenteranno di sfondare - disse - la cresta che ci divide da loro è ben difesa. Ma in ogni caso è giusto mandare degli uomini a controllare se c’è libera una via di fuga verso valle». Nella Malga Pietena dove stava il quartier generale c’era in quel momento un via vai continuo di partigiani che accorrevano per portare notizie, cucinieri, corrieri, funzionari, e altri che riposavano prima di salire sulla cresta dove picchiava il mortaio nemico.
La via di fuga
Dopo tre ore gli uomini mandati a cercare la via di fuga tornarono scuotendo la testa. «Di giorno di lì non si passa - dissero con il fiatone - possiamo tentare questa notte, col buio». Alla fine della mattinata Bruno si convinse che era necessario spostare il quartier generale sul bordo superiore della Busa di Pietena, e diede ordine di prendere ogni cosa: stoviglie, materiale tipografico, riserve di cibo. Tutto da portare su quel cupolone ricoperto di prato e sassi a 2265 metri chiamato Cima Dodici, che si erge subito a Nord della cresta dove infuriava la battaglia. Oggi la Cima Dodici è raggiungibile con una breve deviazione dal sentiero delle Buse, il n° 801, e rappresenta un magnifico belvedere non solo sulle buse, ma anche, verso Nord, sulle trentina Val Noana e sul cuore delle Dolomiti.
«Io vado» sentenziò infine Bruno. «Dove?». «Sulla cresta» rispose brusco uscendo dalla porta. Dopo poco Tilman gli corse dietro con il suo interprete. E presto furono tre puntini lontani sul pendio. Divennero sempre più piccoli, fin quando guadagnarono l’orlo sommitale della Busa di Pietena, all’omonimo passo, proprio dove oggi è posta una targa in marmo bianco che recita «... da questa posizione il leggendario comandante “Bruno” Paride Brunetti mitragliava i rastrellatori nazifascisti consentendo il successivo sganciamento notturno…».
Davanti ai loro occhi si spalancò un panorama magico. Era la Busa delle Vette. Un catino di un paio di chilometri, dal fondo di prato punteggiato di doline e inghiottitoi, e sormontato da morbide montagne ondulate. Proprio dove oggi sorge il rifugio Giorgio Dal Piaz (che, scherzi della storia, prende il nome dal geologo che avvallò la costruzione della diga del Vajont) si erano attendate le forze nemiche, invisibili perché oltre il bordo della grande prateria semicircolare.
Bruno sembrava in preda a un furia incontenibile. Armeggiava una vecchia mitragliatrice francese e sparava colpi all’impazzata verso le truppe che venivano incontro risalendo il pendio. «Nei suoi occhi si leggeva l’ardore del guerriero - ricorderà più tardi Tilman -. Non mi rispose quando gli domandai cosa intendesse fare…». Davanti i tedeschi; dietro, lontani, c’erano i partigiani che salivano verso Cima Dodici. Ma erano allo sbando: lungo il pendio innevato correvano, cadevano, abbandonavano i carichi più grossi. Alcuni rimanevano indietro. Quando infine il sole iniziò a tramontare, Bruno si decise a dare quell’ordine che Tilman attendeva dal giorno prima: «Sganciamento!».
La divisione
Ormai, però, era tardi, e Tilman lo sapeva. Tutta la zona sotto le Buse era presidiata dal nemico. Scendere sarebbe stato andare incontro alle loro armi puntate. Una volta corso dai suoi, Tilman disse subito che non intendeva ritirarsi. Proprio lui che da tempo aveva esortato Bruno a scappare, adesso voleva rimanere. «Noi ci troviamo un nascondiglio sul lato a Nord della montagna. Buona fortuna» disse armeggiando con lo zaino e tastando la tasca con i due milioni di lire per finanziare la Resistenza.
Nella luce ormai fioca, mentre ancora dalla cresta si sentiva Bruno sparare per proteggere lo sganciamento generale, si misero di fianco a Tilman il suo vice Ross, Gozzer e il marconista Pallino. «Ready!», dissero. Avevano lo zaino sulle spalle e la pesante radiotrasmittente da portare.
«Io rimango con il Maggiore» annunciò all’improvviso la voce di un partigiano. «Anch’io» gli fece eco un’altra. E così un’altra ancora. Intorno a Tilman si formò un capannello. «No, per nascondersi bisogna essere in pochi. Non seguiteci. Buona fortuna». E iniziò a salire sul pendio verso qualche cima, sapendo che le tracce che stava lasciando insieme ai suoi sulla neve avrebbero potuto guidare i tedeschi verso il loro nascondiglio. Ma non c’era altra scelta. Dopo poco si voltò, e dietro di sé contò quindici uomini. «Troppi», pensò, salendo veloce nella speranza di trovare un nascondiglio sicuro.
(7 continua)