venerdì 21 agosto 2015

La Repubblica 13.8.15
Oliver Sacks
Compagno piombo amico berillio vi prego restatemi vicino
Lo splendore delle stelle, i ricordi racchiusi nei numeri,la lezione dei metalli.Il grande neurologo racconta come affronta la malattia
di Oliver Sacks


Attendo con impazienza, quasi avidamente, l’arrivo settimanale di riviste come “ Nature” e “Science”, e vado subito agli articoli sulle scienze fisiche — non, come forse dovrei, agli articoli di biologia e di medicina. Furono le scienze fisiche le prime a stregarmi, da ragazzo. In un recente numero di “Nature”, c’era un appassionante articolo del premio Nobel per la Fisica Frank Wilczek su un nuovo modo di calcolare le masse leggermente diverse di neutroni e protoni. Il nuovo calcolo conferma che i neutroni sono un poco più pesanti dei protoni — il rapporto delle loro masse è di 939,56563 a 938,27231 — una differenza irrilevante, si potrebbe pensare, ma se così non fosse l’universo come lo conosciamo non avrebbe mai potuto svilupparsi. La capacità di calcolarla, ha scritto il prof. Wilczek, «ci incoraggia a prevedere un futuro in cui la fisica nucleare raggiungerà i livelli di precisione e di versatilità già raggiunti dalla fisica atomica» — una rivoluzione che, ahimè, non vedrò mai.
Francis Crick era convinto che “il grande problema” — capire come il cervello dia origine alla coscienza — sarebbe stato risolto entro il 2030. «Tu lo vedrai », diceva spesso a Ralph, il mio amico neuroscienziato, «e potrai vederlo anche tu, Oliver, se vivrai quanto ho vissuto io». Crick morì a 88 anni, e lavorò e rifletté sulla coscienza fino all’ultimo. Ralph morì prematuramente, a 52 anni, e io sono oggi, a 82 anni, un malato terminale. Devo dire che non mi sono troppo esercitato sul “grande problema” della coscienza — in effetti, non lo vedo affatto come un problema; ma mi intristisce il fatto che non vedrò la nuova fisica nucleare prefigurata dal prof. Wilczek, né mille altre scoperte nel campo delle scienze fisiche e biologiche.
Qualche settimana fa, in campagna, lontano dalle luci della città, ho visto il cielo intero «spolverato di stelle» (per dirla con Milton); un cielo come questo, pensavo, si può vedere solo su altipiani elevati e desertici, come quello di Atacama in Cile. Questo splendore celeste mi ha fatto improvvisamente capire quanto poco tempo, quanta poca vita, mi siano rimasti. La mia percezione della bellezza del paradiso, dell’eternità, era per me inseparabilmente mescolata con un senso di transitorietà — e di morte. Ho detto ai miei amici, Kate e Allen: «Mi piacerebbe vedere di nuovo un cielo come questo mentre muoio». «Ti porteremo fuori con la sedia a rotelle», mi hanno risposto.
Da quando, a febbraio, scrissi di avere un tumore metastatico, sono stato confortato dalle centinaia di lettere che ho ricevuto, dalle espressioni di affetto e di apprezzamento, e dalla sensazione che forse ho vissuto una vita bella e utile. Tutto questo mi riempie di gioia e di gratitudine — ma nulla mi ha colpito tanto quanto quel cielo notturno pieno di stelle.
Fin da piccolo ho avuto la tendenza ad affrontare le perdite — la scomparsa di persone a me care — rivolgendomi al non umano. Quando mi mandarono in collegio all’età di sei anni, all’inizio della Seconda guerra mondiale, i numeri diventarono i miei amici; quando tornai a Londra, a dieci anni, gli elementi e la tavola periodica divennero i miei compagni. Per tutta la vita, i momenti di stress mi hanno portato ad avvicinarmi alle scienze fisiche, un mondo dove non c’è vita, ma dove non c’è nemmeno morte.
E ora, in questo frangente, in cui la morte non è più un concetto astratto, ma una presenza — una presenza fin troppo vicina e a cui non puoi dire di no — mi sto di nuovo circondando, come feci quando ero ragazzo, di metalli e minerali, piccoli emblemi di eternità. Ad un estremo della mia scrivania, ho l’elemento 81 in una bella scatola, speditomi dall’Inghilterra dai miei amici appassionati di elementi: c’è scritto, «Buon compleanno al tallio», ed è un ricordo del mio 81esimo compleanno, nel luglio scorso; poi, c’è un settore dedicato al piombo, l’elemento 82, per il mio 82esimo compleanno, celebrato all’inizio di questo mese. Sempre qui, c’è un cofanetto di piombo, che contiene l’elemento 90, il torio, un torio cristallino, bello come i diamanti, e, naturalmente, radioattivo — da cui il cofanetto di piombo.
All’inizio dell’anno, nelle settimane dopo aver saputo di avere un cancro, mi sentivo abbastanza bene, nonostante il mio fegato fosse per metà occupato dalle metastasi. Quando il cancro nel mio fegato è stato sottoposto a una terapia, nel mese di febbraio, con l’inoculazione di goccioline nelle arterie epatiche — una procedura chiamata embolizzazione — sono stato malissimo per un paio di settimane, ma poi super-bene, carico di energia fisica e mentale. Ho avuto non una remissione, ma un intervallo, un periodo per approfondire le amicizie, vedere i pazienti, scrivere, e tornare nella mia terra natale, l’Inghilterra. In questo periodo, la gente non riusciva a credere che avessi una malattia terminale, e ho potuto facilmente scordarmene io stesso.
Questo senso di salute e di energia ha cominciato a declinare tra maggio e giugno, ma sono stato in grado di festeggiare il mio 82esimo compleanno in grande stile. (Auden diceva che bisogna sempre festeggiare il proprio compleanno). Ma ora ho un po’ di nausea e ho perso l’appetito; di giorno, ho i brividi; di notte, sudo; soprattutto, ho una stanchezza diffusa, e all’improvviso mi sento esausto se faccio troppe cose. Continuo a nuotare tutti i giorni, ma più lentamente ora, perché comincio ad avere il fiato corto. Prima potevo negarlo, ma adesso so che sono malato. Una TAC, il 7 luglio, ha confermato che le metastasi non solo sono ricresciute nel mio fegato, ma si sono anche diffuse altrove.
Ho iniziato un nuovo tipo di trattamento — l’immunoterapia — la scorsa settimana. Prima di iniziarla però, volevo fare qualcosa di divertente: sono andato in North Carolina per vedere il meraviglioso centro di ricerca sui lemuri presso la Duke University. I lemuri sono vicini al ceppo ancestrale da cui vengono tutti i primati, e mi piace pensare che uno dei miei antenati, 50 milioni di anni fa, fosse una piccola creatura arboricola non molto diversa dai lemuri odierni.
Accanto all’angolo del piombo, sul mio tavolo, c’è il territorio del bismuto: bismuto trovato in natura in Australia; piccoli lingotti di bismuto a forma di limousine provenienti da una miniera in Bolivia; bismuto lentamente raffreddato da una fusione per formare dei bei cristalli iridescenti in terrazze simili a un villaggio Hopi; e, con un omaggio ad Euclide e alla bellezza della geometria, un cilindro e una sfera fatti di bismuto.
Il bismuto è l’elemento 83. Non credo che vedrò il mio 83esimo compleanno, ma mi dà un po’ di speranza, un po’ di coraggio, avere un “83” accanto. Inoltre, ho un debole per il bismuto, un metallo grigio modesto, spesso poco stimato, ignorato, perfino dagli amanti dei metalli. La mia sensibilità come medico nei confronti dei maltrattati o degli emarginati si estende nel mondo inorganico e trova un parallelo nella mia simpatia per il bismuto.
Quasi certamente non vedrò il mio compleanno al polonio (l’84esimo), né voglio avere del polonio accanto, con la sua intensa radioattività omicida. Ma, all’altro capo della mia scrivania — la mia tavola periodica — ho un pezzo di berillio (l’elemento 4) ben lavorato, per ricordarmi della mia infanzia, e di quanto tempo fa ebbe inizio questa mia vita che presto finirà.