venerdì 21 agosto 2015

Il Sole Domenica 2.8.15
I settant’anni dell’era atomica
E la fisica conobbe il peccato
Tutto iniziò a fine 1938 con la scoperta della fissione nucleare La bomba nell’agosto 1945 era pronta e fu lanciata su Hiroshima
di Vincenzo Barone


«Capimmo che il mondo non sarebbe stato più lo stesso. Alcuni risero, altri piansero. Ma la maggior parte di noi rimase in silenzio. A me venne in mente un verso della Bhagavadg?t?. Vi??u cerca di convincere il Principe a fare il suo dovere e, per impressionarlo, assume la forma a quattro braccia e dice: “Sono la Morte, la distruttrice dei mondi”. Suppongo che pensassimo tutti qualcosa del genere, in un modo o nell’altro». Così, molti anni dopo, Robert Oppenheimer ricordò le reazioni di chi assistette all’esplosione della prima bomba atomica nel deserto del New Mexico, il 16 luglio 1945. Era il test decisivo del nuovo spaventoso ordigno. Poche settimane dopo, il 6 e il 9 agosto, due bombe, l’una all’uranio, l’altra al plutonio, furono fatte esplodere rispettivamente su Hiroshima e Nagasaki, provocando circa duecentomila vittime. Il 15 agosto, con la resa del Giappone, si concluse la seconda guerra mondiale.
La lunga catena di eventi che condusse alla distruzione delle due città giapponesi ebbe inizio alla fine del 1938, quando i chimici tedeschi Otto Hahn e Fritz Strassmann scoprirono la fissione nucleare – la scissione di un nucleo pesante in nuclei più piccoli con rilascio di energia. I due scienziati non compresero subito il significato delle loro osservazioni. Furono Lise Meitner e suo nipote Otto Frisch a capire che gli elementi più leggeri che i loro colleghi avevano trovato dopo il bombardamento dell’uranio con neutroni erano la conseguenza del fatto che il nucleo di uranio si spezzava in due.
La notizia di questa scoperta fu portata negli Stati Uniti da Niels Bohr, nel gennaio del 1939. In quegli stessi giorni giungeva a New York da Stoccolma, dove aveva ritirato il premio Nobel, Enrico Fermi, che aveva deciso di abbandonare definitivamente l’Italia. Bohr e Fermi discussero subito con i fisici americani le implicazioni della fissione dell’uranio, e in particolare la possibilità di realizzare una reazione a catena, cioè una successione a cascata di fissioni. Assieme a un brillante scienziato di origine ungherese, Leo Szilárd, Fermi condusse una serie di esperimenti che mostrarono in modo inequivocabile che l’uranio, scindendosi, emetteva più neutroni di quanti ne assorbisse – una condizione necessaria per innescare la reazione a catena.
Nella primavera del 1939, la fattibilità del processo era dunque dimostrata e la prospettiva di un’arma nucleare appariva realistica. Szilárd e altri scienziati fuggiti come lui dal nazismo si resero conto del pericolo: il fatto che le prime ricerche sulla fissione nucleare fossero state svolte in Germania faceva ragionevolmente temere che potesse essere Hitler a dotarsi per primo della nuova arma. Per sensibilizzare il governo degli Stati Uniti, Szilárd decise di coinvolgere un suo vecchio amico, Albert Einstein. Questi capì subito la gravità della situazione e il 2 agosto 1939 scrisse una lettera al presidente Roosevelt per avvertirlo della possibilità di bombe «di tipo nuovo ed estremamente potenti» basate sulla fissione dell’uranio, e del rischio che la Germania nazista stesse già promuovendo ricerche in tal senso.
Per un paio di anni, il governo americano agì a rilento e con scarsa convinzione, fino a che, nell’estate del 1941, si venne a sapere che gli inglesi stavano conducendo studi analoghi, con risultati promettenti. Il progetto per la realizzazione della bomba subì allora una forte accelerazione. Dopo lunghe trattative, Roosevelt e Churchill decisero di combinare gli sforzi dei rispettivi paesi e di concentrare le ricerche negli Stati Uniti. Nacque il Progetto Manhattan, alla cui guida fu posto il generale Leslie Groves, il quale scelse come direttore scientifico il più noto fisico teorico americano, J. Robert Oppenheimer. La principale sede operativa fu collocata in una sperduta località su un altipiano del New Mexico, Los Alamos. Fu lì che, a partire dal 1943, cominciarono ad affluire materiali, strumenti e scienziati. Nel frattempo, alla fine del 1942, Fermi aveva realizzato a Chicago il primo reattore nucleare, che produceva energia in forma controllata dalla reazione a catena R.
I lavori per la costruzione della bomba atomica, sotto la guida dello stesso Fermi, procedettero rapidamente. Tutti avvertivano la necessità di battere i tedeschi sul tempo. Nella primavera del 1945, però, quando la bomba fu finalmente realizzata, la Germania era ormai vicina alla disfatta e divenne chiaro che non possedeva ordigni simili. La guerra continuava nel Pacifico, ma alcuni degli scienziati del Progetto Manhattan - Szilárd in primo luogo - presero posizione affinché la nuova arma non fosse utilizzata su quel fronte, almeno non prima di offrire al Giappone una possibilità di resa. Nel giugno 1945 un rapporto redatto da un gruppo di fisici guidati da James Franck propose di dare solo una dimostrazione pubblica della bomba in un luogo deserto. Ma l’Interim Committee, un comitato ristretto presieduto dal Segretario alla Guerra Henry Stimson, di cui facevano parte, come consulenti, anche Fermi e Oppenheimer, decise che la dimostrazione tecnica sarebbe stata inefficace e raccomandò che la bomba venisse impiegata direttamente contro il Giappone, senza preavviso. Il 16 luglio, nel deserto di Alamogordo, in New Mexico, ci fu la prima esplosione atomica di prova.
Nella lettera a Roosevelt del 1939 Einstein aveva scritto, tra l’altro, di ritenere improbabile che la bomba potesse essere trasportata da un aereo. Si sbagliava. Il 6 agosto, un bombardiere B-29 sganciò Little Boy sulla città di Hiroshima. Il 9 agosto fu la volta di Nagasaki. Questa città non era originariamente nell’elenco dei potenziali bersagli: vi entrò al posto di Kyoto, che Stimson insistette per escludere (non si sa se per l’importanza storico-artistica del luogo o per ragioni di opportunità politica – o forse perché ci era stato in viaggio di nozze, come sostenne qualcuno).
Il 28 agosto 1945 Fermi riprese i contatti con l’Italia. Al suo ex allievo e collaboratore Edoardo Amaldi, scrisse: «Dalla lettura dei giornali di qualche settimana fa avrai probabilmente capito a quale genere di lavoro ci siamo dedicati in questi ultimi anni. È stato un lavoro di notevole interesse scientifico e l’aver contribuito a troncare una guerra che minacciava di tirare avanti per mesi o per anni è stato indubbiamente motivo di una certa soddisfazione». Sono parole che sintetizzano molto bene lo spirito che animò il Progetto Manhattan. Dopo la sconfitta del nazismo, la motivazione che gli scienziati si diedero (e su cui gli storici ancora dibattono) fu di porre fine alla guerra con il Giappone, che si pensava potesse provocare ancora un gran numero di vittime. Ma è innegabile che fin dall’inizio molti di loro furono spinti anche dalla sfida scientifica che il progetto poneva. Come disse Oppenheimer, «quando sei alle prese con qualcosa di tecnicamente interessante, vai fino in fondo e, solo dopo aver conseguito il risultato, ti chiedi che uso farne». L’uso della bomba, tuttavia, fu deciso alla fine non dalle migliaia di persone che avevano contribuito a realizzarla, ma da un piccolo comitato di politici, tecnocrati e scienziati, i quali si assunsero la responsabilità di rigettare tutte le proposte alternative e di decidere il più grande eccidio di civili della storia.
Dopo aver «conosciuto il peccato» (parole ancora di Oppenheimer), gli scienziati reduci dal Progetto Manhattan si resero conto di aver acquisito una straordinaria rilevanza sociale, inimmaginabile fino a pochi anni prima, e di non poter più essere relegati a un ruolo meramente tecnico. Alcuni di loro, consapevoli del fatto che la bomba avrebbe dato avvio a una pericolosa corsa agli armamenti, esponendo l’umanità a un pericolo senza precedenti, diedero vita, nell’autunno del 1945, al Bulletin of the Atomic Scientists, che aveva – e ha tuttora - lo scopo di informare il pubblico e interloquire con i politici sulle questioni poste dall’esistenza e dalla diffusione delle armi nucleari. Nel 1947 sulla copertina del Bulletin apparve per la prima volta l’«orologio dell’apocalisse», un orologio che indica simbolicamente quanti minuti mancano alla mezzanotte – la catastrofe globale. Le lancette, poste inizialmente a sette minuti dalla mezzanotte, furono portate a tre minuti nel 1949, l’anno in cui l’Unione Sovietica realizzò anch’essa la bomba a fissione, e a due minuti nel 1953, quando, nell’arco di alcuni mesi, Usa e Urss si dotarono entrambe della bomba all’idrogeno. La massima distanza dalla mezzanotte (17 minuti) si ebbe nel 1991, l’anno che segnò la fine della guerra fredda. Da allora, sebbene gli arsenali nucleari si siano ridotti in misura notevole, le lancette sono state progressivamente spostate in avanti per varie ragioni: il perdurare di un alto numero di testate nucleari (attualmente si stima che ce ne siano ancora circa diecimila), il moltiplicarsi dei test nucleari (India, Pakistan, Corea del Nord), il pericolo terroristico. Ma l’ultimo avanzamento delle lancette, che le ha portate nel gennaio scorso a soli tre minuti dalla mezzanotte, è stato determinato non da fatti riguardanti gli armamenti, bensì dalla constatazione dell’inadeguatezza dei leader mondiali nella gestione delle emergenze planetarie (incluse quelle relative al clima).
Questa estate segna anche il sessantesimo anniversario del manifesto redatto da Bertrand Russell e Albert Einstein, e diffuso nel luglio 1955, in cui si sollecitavano i governi a bandire le armi nucleari e a trovare mezzi pacifici per la risoluzione dei conflitti (da questo documento sarebbe poi sorto il movimento internazionale per il disarmo Pugwash). La conclusione del manifesto, semplice e diretta, non ha perso la sua validità: «Davanti a noi può esserci, se lo scegliamo, un progresso continuo nella felicità, nella conoscenza e nella saggezza. Vogliamo invece scegliere la morte perché non siamo in grado di dimenticare le nostre dispute? Noi rivolgiamo un appello da essere umani a esseri umani: ricordate la vostra umanità e dimenticate il resto».