venerdì 21 agosto 2015

Il Sole Domenica 2.8.15
Mussolini giornalista
Il potere carismatico nella penna
Talentuoso articolista, eccellente direttore capace di raddoppiare la tiratura dell’«Avanti» e mietere consensi con «Il popolo d’Italia»: il saggio pre-fascismo a cura di Gentile e Di Scala
di Raffaele Liucci


Che personaggio, Mussolini! È stato tutto e il contrario di tutto. Implume socialista rivoluzionario, tuonava contro la «borghesia sfruttatrice», i preti e il «letame cattolico», le guerre coloniali «disastro delle nazioni», l’antisemitismo, salvo poi, diventato duce del fascismo, mobilitare la borghesia sotto le insegne littorie, firmare i Patti Lateranensi, proclamare nel ’36 la rinascita dell’Impero sui colli fatali di Roma ed escogitare nel ’38 le leggi antiebraiche. Senza dimenticare il suo retour d’âge socialisteggiante, nel crepuscolo di Salò. Del resto – come scrive Marco Gervasoni in uno dei saggi di questo aggiornato volume collettaneo dedicato al Mussolini sinistrorso (1902-1914) –, sin dai suoi verd’anni Benito non ha mai reputato che la «coerenza formale» fosse un valore in sé. Per questo è riuscito a impersonare come nessun altro il magma informe del Novecento italiano, in cui di rado le idee rispecchiano concetti chiari e distinti, richiamando piuttosto un cesto di anguille vive e sfuggenti (metafora coniata da Ernesto Rossi a proposito della filosofia di Benedetto Croce).
La tempra anguillesca di Mussolini rifulge nel suo mestiere di giornalista, qui illustrato da Pierluigi Allotti. Perché Benito non fu soltanto un capo carismatico, ma anche un grande giornalista, almeno secondo i canoni del giornalismo nostrano, dove le opinioni contano più dei fatti e i salti della quaglia sono all’ordine del giorno. Direttore di ben quattro testate («La Lotta di Classe», «Avanti!», «Utopia» e «Il Popolo d’Italia») e collaboratore di numerose altre, il «figlio del fabbro» riuscì a coronare il sogno proibito di ogni grande firma, da Eugenio Scalfari in giù, ossia a trasformarsi in un vero leader di partito e poi addirittura in un uomo di Stato. Con buona pace di Max Weber, che nella Politica come professione s’era invece mostrato scettico sulla possibilità, per un gazzettiere, di conquistarsi un posto nella stanza dei bottoni.
Rara avis, Mussolini ricoprì almeno tre ruoli distinti nel firmamento della carta stampata. Innanzitutto, fu un talentuoso articolista. Prediligeva il corsivo e l’articolo di fondo, in grado di vivere «una sola giornata, brevemente, ma intensamente», come spiegava egli stesso. Nessuna sorpresa, dunque, se allo scoppio del primo conflitto mondiale intitolasse un suo fondo «Abbasso la guerra!» e soltanto qualche mese più tardi scrivesse invece, sul numero d’esordio del «Popolo d’Italia»: «Il mio grido augurale… è una parola paurosa e fascinatrice: guerra!».
In secondo luogo, Benito fu un eccellente direttore. Assunte nel novembre 1912 le redini dell’«Avanti!», a soli 29 anni, lo rivoltò come un calzino: ripulendone la grafica, infiocchettandolo di propri corsivi, cappelli e postille, e aprendolo alle suggestioni idealistiche, sindacalistiche rivoluzionarie e anarchiche, in linea con il variegato album di famiglia mussoliniano (qui scandagliato da Emilio Gentile). La tiratura raddoppiò, raggiungendo le 60mila copie, con punte di 100mila. Quando poi, varcato il Rubicone dell’interventismo, nell’autunno ’14 fondò il «Popolo d’Italia», anche quel foglio riscosse un successo, «strepitoso» (Renzo De Felice), tirando sino a 80mila copie. Al netto dei contenuti, osserva Allotti, la nuova testata era un quotidiano di tutto rispetto, con ampi notiziari, pezzi ben titolati, inserzionisti prestigiosi e una foliazione di ben sei pagine (due più dell’«Avanti!»). Insomma, Benito aveva il tocco magico, un po’ come un Vittorio Feltri d’annata, capace di resuscitare fogli ormai decotti o lanciarne di nuovi, con immediato riscontro di vendite.
Mussolini, e siamo alla sua terza incarnazione, fu inoltre uno spregiudicato brasseur d’affaires. Fondare un giornale significa, prima di ogni altra cosa, procurarsi i capitali per avviare l’impresa. Il futuro duce individuò in Filippo Naldi – direttore del «Resto del Carlino», con buone entrature fra i grandi industriali interventisti – l’uomo adatto alla bisogna. Da allora, fioriranno maldicenze su Naldi e gli altri, più o meno misteriosi, finanziatori. Ma questi sono gli inconvenienti del mestiere. Lo stesso accadrà, sessant’anni dopo, con il «Giornale» di Indro Montanelli, dai nemici soprannominato «Montanedison» per gli ormai accertati “sussidi” ottenuti dalla Montedison di Eugenio Cefis.
Senza il crogiolo della Grande Guerra, Mussolini non si sarebbe mai ritrovato «duce». Forse sarebbe rimasto un irrisolto «homme qui cherche», secondo lo pseudonimo rivelatore con cui si firmava sul settimanale «La Folla». L’educazione politica in Svizzera, la parentesi trentina, l’influenza di Sorel, il dialogo con Salvemini e tutti gli altri risvolti biografici qui indagati avrebbero tracciato solo i contorni di una carriera socialista e rivoluzionaria ordinaria, forse un poco più brillante della media. I presenti saggi ripercorrono appunto la «prima vita» di Benito, «senza proiettare retroattivamente su di essa» le vicende del Mussolini fascista, e in questo risiede la loro maggior novità interpretativa. La guerra, «cozzo di energie spirituali» (Gadda), spariglierà le carte, traghettando il giovane Benito verso altri lidi, «animato dalla convinzione di rappresentare una notevole forza nei destini d’Italia», come recitava nel giugno 1919 un lungimirante rapporto di polizia sui neonati Fasci di combattimento: «È uomo che non si rassegna a posti di secondo ordine. Vuole primeggiare e dominare».
La sua volontà di potenza conoscerà un epilogo beffardo. Dopo il 25 luglio ’43, il leader socialista Pietro Nenni, confinato a Ponza e in attesa di essere liberato, annotava sul proprio diario l’arrivo di un ospite di riguardo, appena arrestato: «Dalla finestra della mia stanza, col cannocchiale, ora vedo distintamente Mussolini: è anch’egli alla finestra, in maniche di camicia e si passa nervosamente il fazzoletto sulla fronte». Erano diventati amici nel 1911, entrambi rinchiusi nel carcere di Forlì per aver partecipato a una manifestazione contro la guerra di Libia. All’epoca Nenni era un giovane mazziniano, ma condivideva con Benito «l’odio della società borghese e della monarchia». Ora si scoprivano temporaneamente segregati sulla stessa isola: «io per decisione sua, egli per decisione del re».
Mussolini socialista, a cura di Emilio Gentile e Spencer M. Di Scala, Laterza, Roma-Bari, pagg. 258, € 24,00