venerdì 21 agosto 2015

Il Sole Domenica 26.7.15
Grandi dittatori
Ciò che Tito imparò da Stalin
di Valerio Castronovo


Una poderosa biografia di Jože Pirjevec ricostruisce la vita dell’ex sergente croato, dai cinque anni trascorsi in carcere alla Jugoslavia unita dal culto della personalità
Avrebbe voluto raggiungere gli Stati Uniti Josip Broz, ex sergente croato di un reggimento di fanteria asburgico, caduto prigioniero dei russi nel maggio 1915 e fuggiasco in Finlandia nel luglio 1917, dopo aver partecipato a Pietrogrado a un moto dei bolscevichi. «Se ci fossi riuscito sarei diventato milionario» dirà più tardi. Vero o meno che avesse pensato di scappare Oltreatlantico, sta di fatto che proprio da allora, una volta sottrattosi fortunosamente dalla deportazione negli Urali e arruolatosi poi nell’Armata Rossa, Tito cominciò la sua eccezionale avventura politica nei meandri del movimento comunista.
A ricostruirla, in tutti i suoi risvolti, è adesso la poderosa opera di Jože Pirjevec, imperniata su una vasta documentazione (di archivi ex jugoslavi e sovietici nonché statunitensi, britannici e italiani). Vengono così in piena luce vari episodi emblematici (rimasti inesplorati o non sufficientemente approfonditi) di una vicenda come quella di Tito densa di aspetti oscuri e controversi; e, di riflesso, alcuni snodi cruciali della complessa parabola della Jugoslavia sin quasi alla vigilia della sua disgregazione.
Dall’analisi dello storico sloveno risulta innanzitutto che Tito dovette ai cinque anni da lui passati in carcere, dopo la condanna nel 1929 per attività sovversive, non solo la sua formazione di rivoluzionario di professione (per la lettura in cella di alcuni testi marxisti) ma la sua stessa vita, in quanto, rinchiuso dietro le sbarre, evitò di subire la medesima sorte di numerosi militanti comunisti, torturati a morte o fucilati durante la dittatura instaurata da re Alessandro. Fu poi durante il suo soggiorno a Mosca, dal febbraio 1935, ospitato nell’albergo Lux (dove erano di casa gli stranieri in cerca di asilo), che egli apprese quel che più contava per far carriera e non cadere in disgrazia: ossia, la metodologia e la prassi del potere staliniano.
Tito non ebbe comunque difficoltà ad attenervisi, in quanto era già alieno, nel suo rissosissimo partito, da dispute teoriche e quindi da qualsiasi genere di dubbio. Questo suo innato pragmatismo, associato a una forte dose di cinismo, sarebbe rimasto una costante del suo modo di agire. Il Cremlino si avvalse perciò di lui, dapprima, per la riorganizzazione in Jugoslavia della sua rete spionistica e poi, in Spagna nel 1937, per alcuni «affari sporchi» concernenti l’eliminazione di trockisti e «settaristi». Fu così che Tito, grazie all’appoggio nel Comintern di Dimitrov, conquistò nel gennaio 1939 la carica di segretario del Pcj, di cui seppe rinsanguare le fila per il suo ascendente su giovani studenti e operai.
Dopo l’invasione nell’aprile 1941 delle truppe tedesche e italiane, Tito guidò il movimento partigiano comunista e contese al capo dei cetnici Mihailovic la leadership della Resistenza, riuscendo da un lato a condurre un’efficace lotta contro gli occupanti (al punto che Hitler s’infuriò con i suoi per non esser mai giunti a catturarlo) e dall’altro a destreggiarsi abilmente con gli emissari di Churchill che intendeva preservare la monarchia di Pietro II.
Alla fine del conflitto la spietata resa dei conti nei riguardi dei collaborazionisti, che decimò fra settantamila e centomila persone, venne lodata da Stalin, che deluse tuttavia Tito sulla questione di Trieste non avendo preso, a scanso di ulteriori tensioni con le potenze occidentali, una netta posizione a sostegno delle pretese di Belgrado. Al riguardo, peraltro, non si riscontra, nel resoconto generalmente puntuale ed equilibrato di Pirjevec, un adeguato riferimento all’“infoibazione” di tanti italiani.
Il silenzio steso da Tito sul ruolo dell’Armata Rossa nella liberazione della Jugoslavia irritò a sua volta Stalin: finché alcune iniziative diplomatiche autonome del Maresciallo nei riguardi dell’Occidente spinsero il Cremlino nel settembre 1948 ad accusare Tito e i suoi sodali (Kardelj, Rankovi? e Djilas) di «ottuso nazionalismo» e di «tradimento» del fronte comunista. Né valse a rabbonire Stalin la collettivizzazione totale delle terre in conformità ai dettami leninisti. Di fatto, nel gennaio 1951 il Cremlino giunse persino a prendere in esame con i paesi satelliti la prospettiva di un attacco alla Jugoslavia.
Se dopo la scomparsa di Stalin il dissidio fra Mosca e Belgrado venne attenuandosi (anche perché non si trattava di una spaccatura sul piano ideologico), l’intesa con Kruscev (già messa a dura prova per la repressione sovietica dei moti popolari in Polonia e Ungheria) non sopravvisse all’esecuzione nel giugno 1958 di Imre Nagy (accusato a suo tempo di «titoismo»). Oltre che di «eresia», i dirigenti jugoslavi vennero tacciati di «parassitismo», in quanto sospettati, per gli aiuti economici ricevuti da Washington, di cospirare contro il blocco socialista. Tuttavia il governo di Belgrado aveva ormai acquisito un ruolo autorevole in sede internazionale, grazie alla sagace azione svolta da Tito (di concerto con Nehru e Nasser), per l’avvento di un fronte di paesi «non allineati»; e, insieme a una riforma dell’autogestione operaia nelle fabbriche (i cui risultati erano stati inferiori alle aspettative originarie), aveva cominciato ad aprire il paese agli investimenti esteri.
Facendo leva sul suo personale carisma Tito seguitò non solo a esorcizzare le reiterate condanne per «revisionismo» emesse tanto da Brežnev che dalla Cina di Mao; emarginò anche dai vertici del Pcj alcuni stretti collaboratori d’un tempo critici nei riguardi della sua autocrazia e di uno stile di vita sfarzoso, simile a quello di un arciduca austriaco. Ma intanto s’era acuita la tradizionale rivalità fra serbi e croati e la Slovenia non faceva mistero di puntare a un’integrazione economica con i paesi occidentali confinanti. Tant’è che una nuova Costituzione, varata nel 1974, non valse a scongiurare anche la progressiva reviviscenza sciovinista di altri gruppi etnici (fra macedoni, montenegrini e bosniaci musulmani) e minoritari (fra albanesi, ungheresi e tedeschi). Perciò, dopo la scomparsa nel 1980 dell’ottantottenne Maresciallo (il cui culto della personalità aveva agito fino ad allora da collante) si delineò il crepuscolo della Federazione jugoslava, sfociato poi in una micidiale trafila di guerre civili.
Jože Pirjevec, Tito e i suoi compagni , Einaudi, Torino, pagg. 620, € 42,00