domenica 23 agosto 2015

Il Sole Domenica 23.8.15
Silvia Vegetti Finzi
L’infanzia sotto la lente
di Remo Bodei


Silvia Vegetti Finzi è riuscita nell’impegnativo compito di farci vedere «la grande storia dal basso, con gli occhi dell’infanzia». Dalla fine degli anni Trenta all’immediato Dopoguerra gli eventi scorrono attraverso le reminescenze di una «bambina senza stella», figlia di un padre ebreo costretto dalle leggi razziali a rifugiarsi in Etiopia assieme alla moglie e al figlio maggiore e a nascondere, quindi Silvia, nella Bassa mantovana, dapprima presso una balia, poi dagli zii, dove cresce «felice come una rana nella risaia».
Le prove sostenute, piccoli episodi descritti che, visti dall’esterno, non hanno nulla di memorabile, rappresentano in realtà leggeri colpi di pollice che plasmano suo carattere, come, del resto, quello di tutti i bambini. L’assenza dei genitori e il relativo disinteresse degli adulti che la circondano le offrono il vantaggio secondario di poter tracciare abbozzi, continuamente ritoccati e rielaborati, della propria personalità, di sfruttare una condizione in cui «permangono gradi di libertà ignoti ai figli troppo amati e accuditi». La vita quotidiana, in seguito idealizzata («il pagliaio, la cagna Lila, il frastuono della mietitrebbia, i piedini rossi per aver pigiato l’uva nel tino, il gusto del mosto appena vendemmiato»), è intercalata da momenti di solitudine, di delusioni, e dal basso continuo delle fantasie compensative.
Al ritorno della madre, maestra in un paese del Bresciano, la bambina – senza conoscere la drammaticità della situazione: il nonno paterno e suoi due figli, Ida e Renzo, moriranno ad Auschwitz –, sperimenta l’ostilità degli abitanti, legati a un cattolicesimo retrivo in un luogo, per di più, e in cui stazionano i tedeschi e girano fascisti armati. Combattuta tra il precetto di dire sempre la verità e l’insegnamento della madre di usare un nome che non riveli le sue origini ebraiche, a un ufficiale nazista che la carezza chiamandola «Bella bimba ariana» e le chiede il suo nome, per non mentire sostiene, guardando sua madre, «Dice che mi chiamo Antonia Bianchi». I ricordi dei pesanti bombardamenti alleati su Brescia, della difficoltà di procurarsi il cibo, della liberazione, del ritorno del padre, con cui è inizialmente così difficile colloquiare, si intrecciano, per chi ha vissuto o sentito raccontare eventi come questi, con fugaci immagini di oggetti desueti, come quella del lucido Brill (che «disegna di profilo un omino, vestito da Charlot, che rimira lo splendore della sua scarpa alzandola sino al naso») o della schedina della Sisal, simbolo per l’epoca di rinate speranze.
Fin qui questo potrebbe essere scambiato per uno dei tanti libri autobiografici, per un semplice, inflazionato, Amarcord. Ma il fatto che Silvia Vegetti Finzi sia un’acuta psicologa, un’attenta psicoanalista e una profonda conoscitrice dell’infanzia e delle dinamiche familiari, dà subito al libro un diverso sapore. Ogni flash di memoria (vero o ricostruito nell’immaginazione) è, infatti, accompagnato, quasi in stile contrappuntistico, da un commento che – oltre a spiegarne il senso – allarga sistematicamente il proprio raggio dal caso singolo al nucleo che contiene gli aspetti condivisi da altre infanzie. Senza perdere il marchio distintivo dell’esperienza individuale e la determinatezza delle specifiche situazioni storiche, l’autrice lega il particolare all’universale e mostra le diverse strategie e risorse con cui ogni bambino si prende cura di sé e si costruisce reagendo creativamente a quanto gli capita: «A uno sfondo epocale tragico – la Seconda guerra mondiale – e a una situazione familiare tormentata, contrassegnata dalla lontananza, dall’indifferenza e dal disamore fa riscontro la vitalità della mente infantile, dove la solitudine e il dolore si rifiutano di cedere alla rabbia e alla disperazione».
Sebbene la memoria dei bambini sia molto vivida, si è colpiti dal fatto che i ricordi dei nostri primi anni di vita sono pochi e riguardano non solo eventi apparentemente banali e spesso “inventati”, costruiti a posteriori dalla fantasia, ma proprio per questo densi di significato, in quanto rivestono reali mancanze con proiezioni di desiderio che ne sono il calco.
Silvia Vegetti Finzi sa che i fotogrammi della memoria sono intermittenti, «sempre frammentati e sussultori» (per lei «lampi che illuminano l’oscurità di un passato che nessuno ha raccolto in un album di famiglia»), e che solo la narrazione, stacciando il passato, ne ricostruisce un’apparente continuità e coerenza, per cui «tutto ciò che siamo, persino le occasioni perdute, si trova là, nei sedimenti della memoria che, del fluire del tempo, trattiene l’essenziale». In questo senso, non solo si fornisce al lettore una proustiana “lente d’ingrandimento” per guardare in se stesso, ripensare la propria infanzia e ragionare sul suo destino personale, ma gli si mostra anche come il pensiero narrativo possa tenere insieme, con tocco leggero e sapiente, la grazia nell’esposizione dei ricordi con la serietà nell’analisi dei concetti e dei contesti storici.
Silvia Vegetti Finzi, Una bambina senza stella. Le risorse segrete dell’infanzia per superare le difficoltà della vita, Rizzoli, Milano, pagg. 240, € 18,50, in uscita nei prossimi giorni