venerdì 21 agosto 2015

Il Sole Domenica 19.7.15
Concita De Gregorio
Ballata di sogni angoscianti
di Elisabetta Rasy


Certi casi di cronaca nera colpiscono in modo particolare l’immaginario dell’angoscia. Non si tratta solo o specialmente di storie cruente o di esplosioni di violenza. Sono in genere vicende che assomigliano, più che alla peggiore realtà, al peggiore degli incubi: dell’incubo hanno quell’aspetto di mistero, d’inspiegabilità e d’incongruità che tanto ci turba. Sicuramente, almeno per me, così è la storia di Mathias Schepp e delle sue bimbe gemelle di cinque anni, Alessia e Livia, scomparse per sempre e davvero senza lasciare traccia una domenica di fine gennaio del 2011. Dopo cinque giorni di domande senza risposta, indagini senza risultati e notizie perturbanti, il corpo dell’uomo viene trovato maciullato dal treno sui binari di una ferrovia in Puglia. Dov’erano le bambine? Non si sapeva, non si è mai saputo. «Non le vedrai mai più», aveva scritto il padre alla moglie, che pochi giorni prima della sua scomparsa con le figlie gli aveva chiesto di avviare le pratiche di divorzio. Qualcuno, per qualche tempo, nei posti più distanti, ha segnalato di aver avvistato le piccole, ma in realtà Alessia e Livia erano sprofondate in un indelebile nulla. A differenza di quanto accade nel più terribile dei miti antichi sulla vendetta coniugale, l’infanticidio di Medea, in questa storia non c’è il ritrovamento di corpi innocenti insanguinati. Solo quel nulla che ha inghiottito tutte le domande, mentre le cronache lentamente si andavano spegnendo e l’unica traccia nella memoria era appunto quella di un incubo, qualcosa di terribile e incomprensibile insieme.
Ma in questa vicenda c’è una superstite, ferita al cuore dalla tragedia ma sopravvissuta: Irina Lucidi, la madre delle bambine. Una donna italiana colta, professionista di successo a Losanna, dall’esistenza semplice ma ben organizzata, che non può capire, che non riesce a farsi entrare nella mente come il bell’ingegnere svizzero sposato proprio in vista della nascita delle bambine, un uomo molto ordinato e molto controllato, abbia potuto trasformarsi nella furia cieca che ha investito la sua vita. Irina chiede, parla, scrive a tutti quelli che riesce a contattare, parenti, insegnanti delle piccole, autorità. Irina chiede ascolto, ma non lo trova: il mondo sembra ritrarsi davanti a lei e alla sua pena. È da questa domanda di ascolto, ancora più che da un desiderio di giustizia, che sembra essere nato il libro dedicato alla sua storia da Concita De Gregorio, Mi sa che fuori è primavera. La fascetta con cui l’editore Feltrinelli ne accompagna la pubblicazione recita: «Da un tragico fatto di cronaca una struggente storia d’amore e di speranza». Vero, ma la storia d’Irina Lucidi è anche qualcosa di più: una specie di corpo a corpo con la vita, combattuto da una donna che è stata schiacciata da un dramma pietrificante e cerca una strada, un filo interiore che non solo le consenta di sopravvivere ma anche di preservare la ragione e l’umanità.
Sicuramente così la racconta Concita De Gregorio in un libro che fa pensare più a una ballata che a un romanzo. Ci sono temi che ritornano, temi che si intrecciano, la voce di chi scrive, quella di chi racconta e il rumore di fondo dei ricordi - infantili, famigliari, sentimentali, materni: una matassa dolorosa che è necessario dipanare per continuare a esistere. Il lavoro dell’autrice è semplice e difficile: bisogna narrare una storia vera, cioè non solo resocontarla come fanno le cronache inseguendo la logica dei fatti che finisce per falsarla mano a mano che le notizie prima si accavallano, poi si confondono, infine svaniscono. Che storia è quella di Irina dopo la tragedia? In primo luogo la storia di una solitudine femminile. Non solo per la perdita subita, ma perché è come se inesorabilmente il peso della colpa passasse dal carnefice a lei, la vittima. Difficile il rapporto con la polizia (all’inizio non credono al rapimento perché «suo marito non è un brasiliano ma uno svizzero»), impossibile il rapporto con la terapeuta che aveva in cura l’uomo, inesistente quello con la famiglia di lui, persino le maestre delle bambine la sfuggono. Lei dice che le autorità inquirenti l’hanno trattata con diffidenza perché era una donna e un’italiana. Sicuramente possibile, ma mentre il racconto procede il lettore avverte qualche altra cosa, ancora più penosa : come l’onda burrascosa del dolore personale non possa che infrangersi e venire respinta dal muro della burocrazia o dal fatale ritrarsi di chi non vuole essere contagiano da un male così grande e addirittura addossa alla vittima, la madre privata delle figlie, la responsabilità di non aver capito o previsto le assolutamente imprevedibili e più che estreme intenzioni del marito.
Irina, però , ha deciso di sopravvivere. Concita De Gregorio racconta nella sua ballata, per frammenti e ricorrenti “a solo”, le tappe di questa difficile decisione. Rianimare la memoria antica della propria storia familiare; fondare un’associazione, a nome delle gemelle, che si occupi di bambini scomparsi in Svizzera; viaggiare, spostarsi, insediarsi in un’altra città, con un nuovo amore, una nuova vita. Ma sarebbe troppo facile se fosse un happy end. Prima di uscire con il suo personaggio - dopo un ultimo ascolto, un’ultima conversazione e un’ultima ricerca di verità- per vedere se per caso fuori splenda ancora, come una volta, la primavera, l’autrice ci parla della «parola mancante»: un breve viaggio nelle lingue di oggi e di ieri alla ricerca del termine che indica una madre che ha perso i figli. Ogni lingua si arrangia come può, ma un termine esatto non c’è, è una condizione che una sola parola non può racchiudere. Come la storia di Irina, che si dissemina e si rifrange in tante schegge, perché un solo racconto non basta a contenerla.
Concita De Gregorio, Mi sa che fuori è primavera, Feltrinelli, Milano, pagg. 122,
€ 13.00