domenica 30 agosto 2015

Il Sole 30.8.15
Non chiamiamole «guerre valutarie»
di Gianni Toniolo


La svalutazione dello yuan dell’11 agosto scorso, per quanto relativamente modesta, ha allarmato i mercati. Taluni l’hanno interpretata come un’azione aggressiva, l’inizio di un’altra guerra monetaria. Ha senso vederla in questo modo?
Le odierne «guerre monetarie» sono diverse da quelle del passato. Queste erano di due tipi: nel sistema aureo di cambi fissi, oggetto della «guerra» era soprattutto l’accaparramento, in momenti di crisi, di oro e valute convertibili da parte delle banche centrali volto per difendere il proprio paese da shock esterni. Questa politica aveva un impatto indesiderabile su altri paesi: riduceva la liquidità quando questa era più necessaria, generava deflazione e, in ultima analisi, aggravava le crisi e ne favoriva la trasmissione internazionale, come si vide nel 1907. Un secondo tipo di «guerra monetaria» si ebbe con le svalutazioni competitive. Si trattava, in questo caso, di azioni aggressive, volte a dare alle esportazioni del proprio paese un vantaggio artificiale, ovviamente a scapito di altri. Furono queste le guerre combattute negli anni Trenta: insieme alle tariffe doganali, esse diedero respiro ad alcuni paesi, come il Regno Unito, ma aggravarono le difficoltà dei partner commerciali. Resero più lunga e profonda la Grande Crisi. Questi due diversi tipi di guerra monetaria hanno una cosa in comune: il rifiuto, o l'impossibilità, di un coordinamento internazionale delle politiche economiche. Il sistema monetario di Bretton Woods fu concepito come istituzione cooperativa, anche per evitare svalutazioni competitive. Il Fondo Monetario Internazionale aiutava i paesi con disavanzo esterno a ritrovare l’equilibrio con politiche che non conferissero vantaggi competitivi a chi le attuava. Non sempre il Fondo riuscì nel proprio obiettivo ma creò un clima cooperativo rendendo più conveniente il rispetto delle regole. La cooperazione fu però percepita sempre più come un vincolo, sia in Europa sia negli Stati Uniti, e alla fine abbandonata.
Le guerre monetarie del ventunesimo sono, spesso, conseguenza di politiche monetarie attuate dai vari paesi in risposta a problemi di crescita ed occupazione. Non hanno come obiettivo una svalutazione competitiva del cambio. L'impatto negativo su altri paesi non è in genere voluto ma accettato come inevitabile danno collaterale. Nel mondo di oggi, tuttavia, i danni collaterali possono essere enormi, innescare reazioni a catena economiche, politiche sociali. La politica economica, in particolare ma non solo quella monetaria, dei maggiori paesi produce inevitabilmente rapidi spostamenti di capitali, con effetti destabilizzanti sul tasso di cambio di molte valute, soprattutto emergenti. Il Quantitative Easing della banca centrale statunitense aveva contribuito a generare un forte afflusso di capitali per esempio Messico e Brasile, con connessa rivalutazione del cambio. Negli ultimi mesi l’attesa di un aumento dei tassi americani ha ora concorso, con il rallentamento delle prospettive di crescita, soprattutto in Brasile, al deflusso dei capitali e alla svalutazione. Queste rapide oscillazioni dei flussi di capitale e del valore delle monete generano incertezza, rallentano la crescita di lungo periodo.
Per quanto diverse da quelle del Novecento, le guerre monetarie attuali derivano anch' essa dalla mancanza di coordinamento delle politiche dei vari paesi. La pace può essere raggiunta solo con uno sforzo cooperativo più intenso di quello attuale.
Tornando alla svalutazione dello yuan, essa apparve a molti come una mossa aggressiva, l’inizio di una guerra monetaria tipica del ventesimo piuttosto che del ventunesimo secolo. Probabilmente non è così. I mercati sono stati presi in contropiede da una decisione inaspettata perché ribalta la politica di stabilità con lenta rivalutazione che durava da vent'anni. Ma probabilmente non si tratta di un ritorno al secolo scorso. I motivi di questa mossa a sorpresa sono collegabili al negoziato in corso per la promozione dello yuan a moneta di riserva (a cominciare dall'inclusione dei diritti speciali di prelievo del Fondo Monetario Internazionale) che richiede un cambio meno strettamente controllato, più rispondente alle forze di mercato. Anche in questo caso, però, è mancato uno sforzo di coordinamento cooperativo. La scelta del momento e la povertà della comunicazione hanno dato alla svalutazione (peraltro sinora piuttosto modesta, per esempio rispetto a quella dell’euro sul dollaro) un significato simbolico forse eccessivo. Serve ora un impegno collettivo per evitare che si inneschi, soprattutto in paesi relativamente piccoli ma forse anche in India, un processo di svalutazioni a catena che provochi davvero quella «guerra monetaria» che probabilmente Pechino non intendeva cominciare.