Il Sole 30.8.15
L’Europa si rassegni: non è solo emergenza
L’emigrazione sarà una costante
di Vittorio Parsi
Sono circa un milione i profughi che si stima si “abbatteranno” sull’Unione europea nel corso dell’anno: meno, per intenderci, di quanti hanno letteralmente invaso il piccolo Libano, i cui 4 milioni di abitanti scompaiono rispetto agli oltre 300 della popolazione della Ue. Non che il flusso continuo di profughi dalla Siria non abbia prodotto reazioni preoccupate nel Paese dei Cedri, ma colpisce l’isteria con cui la questione dei migranti è entrata nel dibattito politico europeo, mettendo in evidenza almeno due aspetti principali: la tendenza allo scaricabarile (con annessa esasperazione dei sopiti egoismi nazionali) e il ritardo con cui si tenta di realizzare risposte strutturali a un fenomeno che è tutto fuorché contingente.
Come al solito ci sono voluti i titoli forti, le scene “pulp” (centinaia di affogati qui, decine di asfissiati lì, un po' di “muri” tirati su alla bell’e meglio) affinché si iniziasse a prendere sul serio l’idea di rivedere l’accordo di Dublino, che regola a livello unitario il diritto d’asilo. Nel frattempo tutti, nessuno escluso, hanno provato a scaricare sugli altri la maggior quota possibile dei costi dell’invasione indesiderata: gli italiani sui francesi, i francesi sugli inglesi, un po’ tutti sui greci e sugli ungheresi…). Ora si inizia a comprendere che i migranti vanno e (magari) passano oltre i propri confini nazionali, mentre il fenomeno della migrazione è destinato a restare una costante del nostro mondo. E come tale deve essere trattato.
Ben venga dunque un approccio comune e un controllo condiviso di chi arriva da noi o viene raccolto nel Mediterraneo e si ponga fine ai discorsi dettati dal più cialtronesco semplicismo (che tornino a casa loro! Sì, va bene, ma quale casa? E come?) o dalla retorica dell'accoglienza incondizionata. Così come si proceda alla realizzazione di quelle strutture (sorvegliate) di accoglienza e identificazione che costeranno pure pubblico denaro ma che appaiono necessarie a meno che lo Stato (anche nella forma dell’Unione europea) non intenda definitivamente abdicare alle proprie funzioni.
Colpisce d’altronde come sfugga che le “migrazioni milionarie” rappresentino un inevitabile corollario della dimensione universale e unitaria, seppur per nulla equilibrata, assunta dal sistema internazionale negli ultimi decenni. Frutto delle guerre, che comunque costituiscono un fenomeno disordinante e, singolarmente prese, non “ordinario” della vita internazionale. Ma altrettanto e ben di più frutto delle contraddizioni prodotte dalla diffusione planetaria dell’economia capitalista (o di mercato, se le parole forti disturbano). Sono meccanismi di aggiustamento tra la domanda e l’offerta di braccia, cervelli e bocche da sfamare con i quali dovremo fare i conti in maniera permanente. Ci impressionano, ci preoccupano, ci terrorizzano. E ci costano anche. Ma infinitamente meno di quanto ci costa l'altro meccanismo di aggiustamento dell'economia del terzo millennio, espresso dalle ricorrenti crisi finanziarie e dalle bolle che si producono di continuo nelle piazze finanziarie internazionali. Le settimane di ottovolante delle borse asiatiche, con i riflessi sulle altre borse, hanno bruciato infinitamente più risorse di quanto non possa accadere mettendo mano a un piano complessivo di gestione dei flussi migratori e delle iniziative volte a ridurre in loco (cioè nelle regioni di provenienza) le tensioni economiche che producono almeno la metà dei migranti contemporanei.
Siamo sempre pronti a critiche di maniera rispetto alla disumanità del nuovo turbocapitalismo iperfinanziarizzato; ma allo stesso tempo consideriamo le persone un impiccio né più né meno di quanto farebbe il peggiore “lupo di Wall Street” nella sua esasperazione cinematografica. Plaudiamo ai discorsi papali che condannano la sostituzione del profitto all’uomo come fine dell’attività economica e poi, quando l'umanità ci presenta il conto, sono proprio gli uomini quelli che vorremmo ributtare a mare. Perdendo tra l’altro l’occasione di ricordarci che anche questi rappresentano “capitale umano”: dai tassi di remunerazione sicuramente inferiori a quelli del capitale finanziario, ma altrettanto certamente più duraturi nel tempo e molto, molto più solidi e reali.