sabato 29 agosto 2015

il Fatto 29.8.15
Per non sbagliare sui numeri basta non inventare
di Peter Gomez


A essere superficiali la si potrebbe risolvere con una battuta. Quella che in molti, sbagliando, hanno attribuito all’ex primo ministro britannico, Benjamin Disraeli: “I politici usano le statistiche come gli ubriachi usano i lampioni. Più per il sostegno che per la luce”. In realtà il grave errore del ministero del Lavoro sui contratti a tempo indeterminato siglati in Italia nei primi sette mesi dell'anno (327 mila e non 630 mila come comunicato), serve per consigliare a tutti un po’ di serietà. Gli unici dati considerati a livello internazionale per misurare il mondo del lavoro sono quelli diffusi dall’Istat. Il governo, ma anche i media, devono quindi ripartire da lì se vogliono davvero capire che cosa sta accadendo in Italia. Avere un quadro realistico della situazione è infatti indispensabile per evitare di sperperare inutilmente soldi pubblici e trovare, se è il caso, i correttivi alle norme attualmente in vigore. In attesa che, il primo settembre, l’Istituto di statistica diffonda i nuovi dati, oggi possiamo solo far riferimento a quelli di due mesi fa. Cifre che, come riassume l’ex presidente Istat, Enrico Giovannini, non lasciano spazio a discussioni: “Il numero degli occupati a giugno 2015 è identico a quello di giugno 2014. I disoccupati sono cresciuti di 85 mila unità, gli inattivi (cioè chi non ha un lavoro, ma nemmeno lo cerca ndr) sono 131 mila in meno. E sono 85 mila in meno anche i giovani occupati, arrivati al minimo storico (850 mila ndr) ”. Ovviamente è possibile, ma non probabile che il quadro migliori. A oggi però l’obiettivo, annunciato il 4 marzo dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, di avere per fine anno “intorno ai 150 mila posti di lavoro in più” è realisticamente difficile da raggiungere. E, salvo improvvisa ripartenza a razzo dell'economia, lo sono pure gli “800 mila posti” che il responsabile del Tesoro, Pier Carlo Padoan, a ottobre diceva essere pronosticabili entro il 2018.
DA QUESTO punto di vista, quindi, il Jobs Act e gli sgravi contributivi concessi per tre anni a chi assumeva a tempo indeterminato, non sono fin qui serviti. E non è serio sostenere, come sta progressivamente facendo il governo, che lo scopo delle misure adottate era esclusivamente quello di trasformare i rapporti di lavoro da precari a stabili. Anche perché proprio Matteo Renzi, il 26 ottobre 2014, aveva dichiarato dal palco della Leopolda: “Il posto fisso non c'è più”. E subito dopo aveva fatto approvare il Jobs act che ha di fatto dato agli imprenditori la possibilità di licenziare i nuovi assunti in qualsiasi momento.
Ripartendo dai dati Istat, se davvero si vuole tentare di aumentare il numero degli occupati, è insomma giusto chiedersi cosa fare nel 2016. Poletti ha dichiarato a Rimini che l’esecutivo vuole confermare gli sgravi. I soldi però non ci sono. E, pure se si trovassero, è inutile pensare di continuare a spenderli così. Meglio, suggeriscono le statistiche, riservarli solo alle assunzioni totalmente nuove, destinando magari uno sgravio molto più leggero alle conversioni dei contratti vecchi. Detto in altre parole: se in un’impresa lavorano in 100, magari con 85 rapporti stabili e 15 precari, lo sconto contributivo pieno da oltre 8.000 euro l’anno va riservato ai nuovi lavoratori numero 101, 102 e così via. E solo se il totale dei dipendenti aumenta, per evitare che i 15 a tempo determinato vengano cacciati e sostituiti in blocco. Certo, altre e forse migliori soluzioni ci possono essere. Ma in ogni caso per trovarle è necessario dirsi e dire la verità. A partire da quella sui numeri.