venerdì 21 agosto 2015

Corriere La Lettura 9.8.15
Essere o non-essere è il problema
Tanto rumore per (il) nulla
Come affermare che qualcosa non esiste?
Se non c’è una realtà di riferimento non ci si può esprimere al riguardo. O sì?
La questione che arroventa l’estate dei filosofi europei. Con qualche ironia
di Giovanni Ventimiglia


Molto rumore per nulla. Letteralmente. Nell’estate dei filosofi, infatti, impazza niente di meno dell’«essere» e, soprattutto, niente di più «del niente». Da maggio ad agosto il programma dei convegni, dei seminari per dottorandi, delle Summer School di filosofia ha per filo conduttore proprio (il) «niente» (e il suo miglior nemico: l’essere). Da Lugano (15-16 maggio) ad Ascona (24-29 maggio), da Bergamo (1-3 luglio) a Ginevra (4-5 luglio) fino all’imminente Summer School di Grado (dal 24 al 29 agosto prossimi) — presenti le massime autorità al mondo nel campo della metafisica come Enrico Berti (Padova), Kit Fine (New York), Peter van Inwagen (Notre Dame), Anthony Kenny (Oxford), Kevin Mulligan (Ginevra) — i dibattiti dei filosofi vertono sul «niente» e sui modi per distinguerlo dall’essere.
Sono gli eredi, di solito ormai solo anglosassoni, della Magna Grecia che, lasciatosi alle spalle già da tempo il nichilismo, non hanno tuttavia abbandonato l’interesse per il nulla. Nella sua forma breve il problema delle cose che non esistono è il seguente: 1) non esistono e 2) lo dicono tutti (che non esistono).
Tutti noi, per esempio, diciamo che Lord Voldemort, il mago oscuro della saga di Harry Potter, « non esiste». Di più, siamo fermamente convinti della verità di questa frase. Ora però, una frase è vera quando corrisponde alla realtà ed è falsa quando non corrisponde alla realtà. A questo punto nasce spontanea la domanda: a quale realtà corrisponde la frase «Lord Voldemort non esiste»? Proprio perché non esiste, non vi può essere niente nella realtà che renda vera la frase «Lord Voldemort non esiste». Eccoci giunti subito a un bivio: o eliminiamo la «non-esistenza» dal nostro linguaggio, oppure le facciamo posto in qualche modo nella realtà. In altre parole, sull’argomento «nulla», linguaggio e realtà non possono convivere, quindi o cambiamo il linguaggio o cambiamo la realtà (estendendola in qualche modo anche alle cose che non esistono). Ebbene, chi si cimenterà in queste due impresucce da niente? I filosofi, ça va sans dire !
La corrente più accreditata e persino alla moda, almeno fino a qualche tempo fa, era quella di Frege, Russell e Quine, la quale, seppure con qualche differenza al suo interno, in proposito non mostrava dubbi: bisognava correggere il linguaggio. Così, una proposizione come «Pegaso (il cavallo alato della mitologia greca) non esiste» andrebbe riformulata più correttamente secondo loro nei termini seguenti: «La proprietà essere-pegaso non è istanziata nemmeno una volta», ovvero «nulla pegasizza ». Come si vede, il predicato «non esiste» (della frase «Pegaso non esiste») è magicamente scomparso.
E tutti vissero felici e contenti. Il problema è che, pur felici, non si capivano fra loro. Se il linguaggio, infatti, ha tra i suoi scopi principali quello di rendere possibile la comunicazione fra gli uomini, che cosa se ne fanno questi di un linguaggio in cui, pur di evitare di usare le semplici parolette «non esiste», ci si arrampica in incomprensibili quanto improbabili «nulla sirenizza » (al posto di «le sirene non esistono») e «nulla cerchioquadratizza » (invece di «i circoli quadrati non esistono»)?
E potrebbe mai la figlia piccola di un seguace di Quine, svegliatasi di notte per aver sognato Lord Voldemort, sentirsi rassicurata da un padre che dicesse: «Non temere bambina mia, la proprietà lordvoldemortizzare è istanziata zero volte»? Temo che alle due di notte non sia precisamente la frase più indicata per sperare di mettere a letto la figlia e tornare a dormire.
Insomma, ci sono situazioni in cui «non esiste» è proprio un’espressione insostituibile. Non resta, a questo punto, visto che non si può cambiare così facilmente il linguaggio, che provare a cambiare la realtà (o meglio il catalogo di ciò che esiste), includendovi in qualche modo anche gli oggetti non esistenti (precisamente quelli che renderebbero vere le frasi del tipo «Lord Voldemort non esiste»). È quello che ai nostri giorni, in polemica con Quine e i suoi seguaci, hanno fatto, tra gli altri, seppure in modi diversi, alcuni filosofi intervenuti ai convegni sopra menzionati, come Francesco Berto (Amsterdam), Alberto Voltolini (Torino), Kristopher McDaniel (Syracuse), Brian Embry (Toronto).
Alcuni di essi distinguono, con Meinong, «esistere» da «essere», sostenendo che gli oggetti non esistenti non «esistono», ma «sono». Bene, ma se sono, «dove sono» precisamente, dal momento che di certo non esistono nel mondo materiale? E qui le risposte rispolverano di solito i «mondi possibili» di Leibniz, il «terzo regno» di Meinong, quando non direttamente il «mondo delle idee» di Platone: i personaggi che non esistono, come Lord Voldemort, Geronimo Stilton, Percy Jackson, insieme a cose come il valore dell’onestà , l’ideale della meritocrazia , l’idea di giustizia «sarebbero» tutti lì. Seconda stella a destra, questo è il cammino.
Ora però, a parte il fatto che l’esistenza dei possibili, ossia di identità senza effettiva entità, è, appunto, tutto tranne che scontata, resta sempre il problema della bambina che si sveglia nel cuore della notte: sarà rassicurata, stavolta, nell’ascoltare il papà seguace di Meinong che le dice: «Lord Voldemort è ma non esiste»? Sospetto che, pur non sapendo nulla di filosofia, la piccola obietterebbe: «Ma papi, insomma, c’è o non c’è?».
Non avrebbe tutti i torti, anzi la sua reazione sarebbe del tutto sana, se si considera che l’incapacità di distinguere ciò che esiste da ciò che non esiste è precisamente il sintomo di una patologia che, a chiamarla con il suo nome, si definisce «psicosi». Così, in un tempo in cui le ore di esposizione ai display e ai mondi fittizi superano ormai quelle passate nel mondo reale, le discussioni dei metafisici sulla non-esistenza e la sua distinzione dall’esistenza, al di là dei loro esiti, suonano come una forma di resistenza umana contro la tendenza globale psicotica, tipica di chi ormai non distingue più facilmente tra la realtà e la finzione, il reality e lo show, l’essere e il non essere.