Corriere La Lettura 30.8.15
Quattro anni di Montale nella miniera
Torna in edizione commentata l’ultimo libro del Nobel
di Roberto Galaverni
Credo che il riscontrare via via acclarata, e in misura sempre più difficilmente contestabile, la non autenticità del Diario postumo , stia concedendo agli estimatori di Eugenio Montale un respiro di sollievo. Così, almeno, vale per me. Lessi subito all’uscita, nel 1991, la prima parte di quelle poesie, prendendo da allora per buona la paternità montaliana. Forse per il semplice motivo — si perdoni la mia ingenuità — che sulla copertina del libro c’era scritto il nome di Montale. Così per parecchi anni, nonostante le polemiche che subito fecero coda all’uscita del Diario postumo , ho continuato a pensare che quelle poesie fossero sue, ma che costituivano davvero un nonnulla. Adesso, dopo le ricerche di vari studiosi — penso a Alberto Casadei, Federico Condello, Paola Italia, ad esempio — credo ancora che quelle poesie siano pochissima cosa, ma che non siano però di Montale (se non, a quanto sembra, una o due). Non cambierà molto, forse, ma ritengo che tra le due cose un po’ di differenza ci sia.
In verità, come i suoi lettori sanno benissimo, per avere un Montale postumo a se stesso non era necessario attendere la scomparsa del poeta, nel 1981. Il Montale dopo Montale era iniziato ben dieci anni prima, con il suo quarto libro di versi, Satura . Da quel momento e per tutto l’ultimo periodo della sua vicenda poetica, scandita dalle due raccolte seguenti, il Diario del ’71 e del ’72 (1973) e il Quaderno di quattro anni (1977), Montale si caratterizza infatti per il drastico abbassamento dei registri espressivi, in sintonia con una completa ridefinizione degli infiniti temi, motivi, figure, presenze e, insomma, di tutta quanta l’individuatissima mitologia a cui era stata votata fino ad allora la sua poesia. I tratti fondamentali della svolta montaliana, che rimarranno costanti per tutta la sua ultima stagione, sono stati individuati fin da subito con precisione: apertura alla prosa e alla cosiddetta lingua comune o d’uso, trasparenza comunicativa, registri discorsivi, argomentativi e didascalici, disposizione filosofica, prevalere dell’intelligenza e della concettualizzazione sulle percezioni sensibili, sentenziosità, scetticismo, ironia, uso costante del paradosso e delle tecniche — le stesse praticate costantemente dalla Szymborska, per esempio — dell’antifrasi, del rovesciamento, dell’inversione del senso. Certo è che Montale, assieme alla propria storia e identità di poeta, sta condannando senz’alcuna attenuante (e speranza) la cosiddetta civiltà del consumo e delle comunicazioni di massa, che viene sottoposta a una critica tanto flemmatica quanto feroce, in cui storia e metafisica, il particolare più infimo e la visione universale o cosmica sembrano darsi la mano. Una resa? Niente affatto. Un’efficacissima strategia poetica, semmai. Alcune tra le poesie più necessarie e vive di tutto Montale si trovano negli ultimi tre libri.
Detto questo, bisogna però precisare che quello che volta a volta chiamiamo l’ultimo, il vecchio, il tardo Montale, pur se a partire da un’indubbia continuità di modi poetici, risulta al suo interno piuttosto differenziato. Ognuna delle ultime raccolte possiede insomma una fisionomia particolare. Consente ora di riconoscerlo con più chiarezza la prima edizione integralmente commentata del Quaderno di quattro anni , uscita per Mondadori a cura di Alberto Bertoni e Guido Mattia Gallerani. A fronte del rischio di una possibile ipertrofia del commento, uno dei pregi di questa edizione sta nella riuscita sinteticità. Data la sua natura di continuo auto-riferimento, infatti, i rimandi del sistema poetico montaliano a se stesso risultano pressoché innumerevoli, tanto più che a quello deve aggiungersi la non piccola, non di rado notevole produzione in prosa. In pratica ogni presenza che compare in queste poesie ha una propria, spesso lunga storia all’interno dell’opera di Montale. Proprio questo del resto colpisce. La capacità del poeta di parlare di tutto attraverso se stesso e i suoi prodotti di scavo acquisiti, come se la miniera della sua poesia quanto a materie prime fosse esaurita e non restasse altra possibilità che la riconversione di materiali di seconda mano o di scarto. Una poesia riciclata, dunque, e originale (si pensi a questo punto come la parola diventi equivoca) proprio per questo. In ogni caso, sia la vastità sia la pertinenza storica e antropologica dell’incredibile repertorio d’immagini della poesia montaliana ne escono confermate nel momento stesso in cui quel repertorio viene rovesciato su se stesso.
Fin dalla poesia d’apertura, L’educazione sentimentale , una piccola ma compiuta parabola di formazione che rappresenta un unicum nella poesia di Montale, appare però chiaro il senso di quest’opera di riqualificazione poetica. Non si tratta infatti di rovesciare il segno più nel segno meno, il pieno nel vuoto, il positivo nel negativo, quanto invece di annullare le distinzioni nell’indifferenza, fino a un nulla di fatto coincidente non con l’incapacità ma, che è diverso, con l’impossibilità di scegliere una direzione per la propria esistenza.
Più e meno, positivo e negativo, verità e falsità, dunque. In queste poesie il senso propriamente non corre ma, come non avesse prospettive, gira su se stesso, senza sfociare da nessuna parte (qui la consonanza con Zanzotto è molto forte). E infatti: «Oggi la linea dell’orizzonte è scura/ e la proda ribolle come una pentola». Non a caso la figura retorica privilegiata di questo Montale, corrispondente a una visione della realtà molto precisa, è quella dell’ossimoro (frequentatissima del resto anche dai maggiori poeti italiani attivi in quegli stessi anni), a cui vengono riportati i grandi temi dell’identità, del tempo, della memoria, della natura, della creazione, della scienza, del progresso, del linguaggio, dei rapporti personali, della verità: «il troppo pieno simula il troppo vuoto», «la memoria vivente è immemoriale», «la distanza/ di quanto più s’accorcia di tanto si allontana».
C’è però nel Quaderno di quattro anni qualcosa di aggiunto rispetto alle due raccolte precedenti. Qui Montale, come ha scritto Cesare Garboli, «ci offre il suo profilo più vulnerabile, più disarmato. Non programma incertezze, ma le soffre». Credo sia giusto, almeno senza accentuare troppo l’idea del patimento, per aggiungere semmai anche quella di un’appassionata saggezza. Dopo il grande auto da fé di Satura e il tran tran nichilista del Diario , Montale sembra non avere più bisogno di dimostrare alcunché. Ma i suoi grandi «perché?» ci sono ancora tutti. La sonda più profonda dell’interrogazione poetica riguarda non a caso i fondamenti primi della sua storia di uomo e di poeta. Così, come in un periplo che si stia chiudendo, l’interlocutore privilegiato dell’ultimo libro è il primo, Ossi di seppia , dunque, e quel «ragazzo col ciuffo» che si divertiva ad agguantare anguille da cui tutto, o forse niente, un giorno era cominciato.