venerdì 21 agosto 2015

Corriere La Lettura 2.8.15
I selvaggi smisero di essere selvaggi
La lezione di Malinowski: le società indigene non sono chiuse amano il dono più del profitto, ignorano il complesso di Edipo
di Adriano Favole


Amava la montagna, tanto da passare lunghi periodi estivi a Soprabolzano con la moglie e i figli, in una casa che appartiene tuttora ai suoi discendenti. La sua notorietà si deve però ad alcune isole coralline, situate al largo di Papua Nuova Guinea, in Melanesia. Alle isole Trobriand, Bronislaw Malinowski costruì il «mito» dell’antropologo camaleonte, capace di «cogliere il punto di vista del nativo» (come lui stesso scriveva); il mito di fondazione di una disciplina che si propone di allargare lo spettro di conoscenza dell’umanità.
Un secolo fa, nel giugno del 1915, Malinowski metteva piede per la prima volta a Kiriwina, nell’arcipelago delle Trobriand in cui sarebbe rimasto, salvo brevi rientri in Australia, per tre anni. 1915-1918: le date si sovrappongono, non a caso, con quelle della Grande guerra. Nato a Cracovia, Malinowski andò a studiare antropologia alla London School of Economics. Nel 1914 si trovava a Sydney per un convegno e per intraprendere una ricerca sull’organizzazione parentale degli aborigeni australiani. Lo scoppio della guerra lo costrinse, in quanto cittadino dell’impero austro-ungarico, a un lungo e produttivo confino nei mari del Sud, di cui approfittò per mettere a punto, prima sulle coste orientali della Nuova Guinea (Mailu) e poi alle Trobriand e dintorni, il metodo dell’etnografia o osservazione partecipante. La conoscenza dell’«altro» doveva scaturire da forme di intensa condivisione ed empatia, favorite da una prolungata e continua residenza «sul campo». Le date si sovrappongono anche simbolicamente: da un lato la guerra metteva in crisi l’ideologia del progresso e sollevava forti dubbi sulla natura della civiltà europea; dall’altro Malinowski documentava l’esistenza di altre civiltà, ben diverse da quelle che popolavano (e popolano tuttora, ahimè) l’immaginario primitivista occidentale.
Tanto per cominciare, i trobriandesi erano (e sono anche oggi) tutt’altro che una società chiusa. Nel suo lavoro più conosciuto, Argonauti del Pacifico occidentale , Malinowski descrisse l’esistenza alle Trobriand di uno scambio sontuoso su lunga distanza (detto kula ) di oggetti privi di valore utilitario. Una forma di relazione interinsulare e interculturale attraverso cui si dipanavano complesse reti di relazioni politiche, economiche e parentali e che impregnava di sé la vita quotidiana dei nativi.
«Un altro concetto che si deve demolire una volta per tutte è quello dell’ “uomo economico primitivo” che si trova in certi manuali correnti di economia», scrive Malinowski (per inciso lo si trova tuttora, in genere nelle pagine sul baratto!). «Anche un solo esempio ben circostanziato mostrerebbe quanto assurdo sia questo assunto che l’uomo, e in particolare l’uomo a un basso livello di cultura, sia guidato da motivi puramente economici di chiaro interesse personale. Il trobriandese lavora spinto da motivi assai complessi di natura sociale e tradizionale, mirando a obiettivi che non hanno certo molto a che vedere con la soddisfazione di desideri presenti o con il raggiungimento immediato di fini utilitari».
Per esempio Malinowski descrive la minuziosa cura estetica dei campi di tuberi da parte degli orticoltori locali, mostrando come gran parte della produzione fosse riservata agli scambi e all’ostentazione. Anche internamente, una fitta rete di relazioni sociali, modellata da valori, idee e aspettative legava tra loro gli abitanti dell’arcipelago. L’etnografia di Malinowski fornì a Marcel Mauss gran parte degli spunti per l’elaborazione della teoria del «dono», la cui portata purtroppo ancora sfugge a un mondo sempre più dominato dall’ideologia utilitarista e monolitica dell’ homo oeconomicus .
Come ha mostrato James Clifford, il successo di Malinowski deve molto a uno stile di scrittura vivace, romanzesco, epico in alcune parti. «Quando entriamo nella laguna, seguendo gli intricati passaggi tra le secche, e ci avviciniamo all’isola principale, il denso groviglio opaco della bassa giungla si interrompe qua e là su una spiaggia, sicché possiamo scorgere un boschetto di palme che sembra una volta sorretta da pilastri»: bastano alcune pennellate paesaggistiche per tratteggiare lo stile di un autore che amava Conrad (lo aveva incontrato nel 1913) e sapeva compiacere il pubblico, anche con la scelta dei titoli a sfondo esotico/erotico. Esche narrative, che nascondevano però proposte teoriche tutt’altro che compiacenti e superficiali, come la messa in discussione dell’universalità del complesso edipico: in una società matrilineare, in cui i figli «appartengono» al gruppo della madre, in cui è lo zio materno a esercitare l’autorità paterna, in cui il genitore maschile è solo un generoso e premuroso compagno della mamma, che bisogno c’è di «uccidere» il padre?
La critica postmoderna si è accanita contro Malinowski, soprattutto a partire dalla contestata pubblicazione nel 1967, da parte della vedova, dei suoi diari privati di campo. In queste scritture intime, l’antropologo appare immerso nei dubbi, infastidito dalla prolungata esperienza di campo, persino intollerante verso gli abitanti delle Trobriand. I diari sono stati usati per criticare le pretese oggettiviste della ricerca e come emblema di quella crisi della rappresentazione e della «verità» che è un po’ la cifra del postmodernismo antropologico. Malinowski (come gran parte della sua generazione) è stato accusato di essere andato alla ricerca di mondi isolati ed esotici e di essere stato incapace di dar conto delle profonde trasformazioni che il cristianesimo e la colonizzazione avevano già operato. Chi immaginerebbe leggendo le sue monografie che, proprio in quegli anni, non pochi oceaniani combattevano e morivano nelle trincee della Grande guerra? E ancora, come mostreranno gli studi di Annette Weiner alle Trobriand negli anni Settanta, gli scritti di Malinowski furono il prodotto di una etnografia parziale, perché inevitabilmente legata allo sguardo maschile dell’antropologo.
Eppure le monografie di Malinowski mantengono una intensa vitalità; il metodo dell’etnografia, sperimentato per la prima volta un secolo fa, ha travalicato i confini dell’antropologia, contagiando seriamente sociologi, psicologi, analisti di mercato; il commercio kula , contro le stesse previsioni dell’autore, esiste tuttora e ha incorporato nuove rotte e nuove relazioni interculturali. Ciò che resta di Malinowski è, soprattutto, la capacità di sedurre con la scrittura, a partire da una esperienza diretta e concreta di incontro, condivisione e ascolto (non priva di tensioni, come mostrano i diari). Abbastanza per continuare ad attrarre l’attenzione di schiere di giovani lettori, un secolo dopo, in un’epoca scientifica dominata da freddi, distanti e astratti indici e indicatori che raramente sanno cogliere, qui e altrove, «il punto di vista del nativo».