venerdì 21 agosto 2015

Corriere La Lettura 26.7.15
L’antifilosofo Epicuro il primo rottamatore
Si rivolgeva alle persone comuni per liberarle dalla paura di morire
Un pensatore adatto ai tempi di crisi
Contro la metafisica rivalutò i piaceri del ventre
di Mauro Bonazzi


I testi originali
Tra le raccolte di scritti del filosofo e testimonianze su di lui: Epicurea , a cura di Hermann Usener (traduzione e note di Ilaria Ramelli, Bompiani, 2002); Epicuro, Opere , a cura di Graziano Arrighetti (Einaudi, 1960); Epicuro, Scritti morali , a cura di Carlo Diano e Giuseppe Serra (Bur, 1987)
Per approfondire
Saggi specifici sull’opera di Epicuro: Francesco Verde, Epicuro (Carocci, 2013); Pierre-Marie Morel, Épicure (Vrin, 2010). Altri libri trattano del suo pensiero in un contesto più generale: Mario Vegetti, L’etica degli antichi (Laterza, 1989); Carlos Lévy, Le filosofie ellenistiche (traduzione di Angelica Taglia, Einaudi, 2002); Martha Nussbaum, La terapia delle passioni (traduzione di Nicoletta Scotti Muth, Vita e Pensiero, 1998); James Warren
(a cura di), Facing Death. Epicurus and his Critics (Clarendon Press, 2004). Su un tema specifico: Stefano Maso, Capire e dissentire. Cicerone e la filosofia di Epicuro (Bibliopolis, 2008)

Epicuro ricorda quei politici che pretendono di non essere politici. Durissimi contro i «professionisti della politica», reclamano un rapporto privilegiato con le persone comuni, con cui dicono di condividere i problemi: problemi di cui «gli altri», i politici, non capiscono naturalmente nulla, e che invece sarebbero facili da risolvere, ad averne voglia. A guardar meglio, però, vien da pensare che questi professionisti dell’antipolitica siano politici scafatissimi, molto più astuti dei loro avversari. Non meno astuto, Epicuro è il primo professionista dell’antifilosofia: e infatti è un filosofo tra i più sottili.
Le strategie sono le stesse. Intanto si attaccano gli avversari, cercando di screditarli. In quest’arte Epicuro non fu secondo a nessuno. Ma soprattutto bisogna usare un linguaggio piano, lontano dai tecnicismi. In effetti, le espressioni dei politici non brillano per chiarezza. Ma molto più oscuri erano i filosofi greci, che si erano inventati una lingua tutta loro: radici, omeomerie, principi, forme, sostanze e accidenti.... Epicuro è invece di una chiarezza cristallina: come un diamante, è stato detto. La realtà sono i corpi che si muovono nel vuoto.
Ma la semplicità è una strategia di comunicazione. Anche se fingeva il contrario, Epicuro conosceva benissimo le teorie dei suoi avversari e le rovesciava con un ragionamento, la cui forza era ben nota. Per non girare a vuoto una tesi deve fondarsi su evidenze incontrovertibili; l’unico mezzo che ci permette di entrare in contatto con la realtà sono le nostre esperienze sensibili; queste esperienze mostrano che soltanto i corpi esistono; dunque la realtà sono i corpi. Può sembrare una tesi banale, ma è la prima volta che il materialismo si affaccia sulla scena del pensiero occidentale. Non servono parole ampollose ed è inutile andare al di là di ciò che sta intorno a noi. Epicuro è la pecora nera della metafisica greca.
O forse il maiale, se si pensa alla difesa del piacere, la sua tesi più famosa. Epicuro è uno dei pochi pensatori che hanno avuto l’onore di diventare un aggettivo: purtroppo per lui, però, «epicureo» non è un termine di cui andare troppo fieri. Uno che pensa solo a bere e a mangiare: che filosofia è? Se aggiungiamo che nel suo Giardino erano ammesse anche le donne, sarà facile immaginare quali voci circolassero su di lui. Del resto, non è che Epicuro si sforzasse di evitare gli equivoci, quando inneggiava al «piacere del ventre» (il «principio di ogni bene») o minacciava di «sputare sulla morale, se non arrecava alcun piacere».
Ma ancora una volta, bisogna distinguere tra strategie di comunicazione (che parlino male di te, ma che parlino) e concetti. Non si è mostrato che la realtà è quella dei corpi? E allora bisogna riconoscere che il piacere è un bene, senza inutili moralismi. Come ha ridato dignità ai corpi, così ridà dignità al piacere, svelandone la natura. Il vero piacere è lo stato di benessere che si dà quando non abbiamo bisogno di nulla, quando non soffriamo perché abbiamo tutto quello che ci serve. Sommersi da pregiudizi e illusioni, crediamo di aver bisogno di mille cose per essere felici, e sprechiamo la nostra vita nel tentativo di ottenerle: ricchezze, potere, celebrità. Quello che abbiamo non basta mai, ma ci sembra che se solo potessimo averne ancora un po’ allora saremmo felici. Quando lo otteniamo, però, non cambia niente e ne cerchiamo ancora, sempre insoddisfatti e sempre convinti che se solo ne avessimo ancora un po’… e così via in una spirale perversa che non finirà mai, perché stiamo inseguendo illusioni che nulla hanno a che vedere con la felicità. Le cose che ci servono sono poche (non soffrire, vivere liberi da paure e pregiudizi, amici veri) e non serve certo essere ricchi e potenti per ottenerle. «Niente è sufficiente a colui cui il sufficiente non basta»: non è certo volgare edonismo.
Nelle ultime settimane ci è stato ricordato che la Grecia è la culla della nostra civiltà. Ma si parla sempre della democrazia ateniese e mai del nuovo mondo di Epicuro. Eppure è proprio quello il mondo che più assomiglia al nostro. Un mondo in cui i confini non contano più, in cui i grandi imperi tolgono peso alle realtà locali, in cui il confronto obbligato con nuove civiltà mette in crisi tradizioni consolidate. Improvvisamente ci troviamo soli, i punti di riferimento abituali non sembrano valere più nulla. L’insegnamento di Epicuro nasce in un contesto analogo: è rivolto ai singoli individui, a ciascuno di noi, ma non è un pensiero individualista. È piuttosto un invito ad approfittare della crisi per costruire un mondo più autentico, che si regga su valori semplici ma reali: la giustizia, la lotta contro il bisogno, la liberazione dalle paure e dai pregiudizi. Tutto cambia ed è inutile ripiegare nella nostalgia del passato: la sfida è diventare ciò che vorremmo essere. Pensiamo che sia impossibile, e invece è facile. Non servono teorie o azioni audaci, basta coltivare il nostro giardino con gli amici. Le comunità epicuree hanno prosperato per secoli come piccoli Stati negli Stati, sotto gli occhi inorriditi di tanti Ciceroni.
Ma davvero è tutto così semplice? Epicuro rivela il suo vero volto, quando ingaggia la battaglia decisiva, contro la morte. Non lo ammettiamo, ma la causa delle nostre inquietudini, del nostro scontento, della nostra infelicità è una sola: la paura della morte, questo scandalo insopportabile, la consapevolezza sgomenta che non ci saremo più. Che senso ha la morte? Come tollerarla? Forse è proprio per rispondere a queste domande che sono nate la filosofia e la religione. Anche la scienza, si pensi alle ricerche sulla clonazione e l’ibernazione, è animata dal desiderio di sconfiggere la morte.
Inutile dirlo, Epicuro va nella direzione opposta. Gli altri cercano di esorcizzare questo spettro, prolungando la vita o promettendocene un’altra. Epicuro ci insegna a guardare in faccia la realtà senza paura: la morte è un fatto, sarebbe patetico pretendere altrimenti. Ma la morte «non è niente per noi». Noi siamo il nostro corpo vivente e intelligente, composto di atomi; la morte è il disgregarsi di questo corpo. Quando ci siamo noi, dunque, la morte non c’è e quando c’è la morte non ci siamo noi. Non c’è motivo per preoccuparci di qualcosa che non ci riguarda. Liberiamoci da questa angoscia, che avvelena le nostre giornate, e vivremo felici come dèi.
Del resto, perché voler continuare a vivere all’infinito, per l’eternità? Uno spettacolo non è bello, proprio perché a un certo punto finisce? E poi, ci angosciamo forse perché non c’eravamo quando Napoleone ha conquistato l’Europa? Ma se non c’importa del fatto che non c’eravamo prima, perché dovremmo angosciarci di sapere che non ci saremo dopo? O ancora: se non ci fossero morti ma solo nascite, il mondo diventerebbe un posto orribilmente pieno: chi ci vorrebbe vivere? Anche l’idea della rottamazione nasce con Epicuro.
Questi ragionamenti sono semplici, coraggiosi, efficaci. Ma girano intorno al vero problema: in fondo non temiamo il nulla della morte, ma la perdita della vita, l’idea che la vita sia interrotta prima del tempo. Epicuro lo sapeva e ha una risposta anche per questo. Non ha senso temere la morte, perché la felicità non aumenta con il tempo. Quando stiamo bene, abbiamo raggiunto la felicità e questa condizione piacevole non aumenta se la si prolunga nel tempo. Se c’è, c’è; non è una merce da accumulare; un giorno o un anno in più non fanno differenza. La paura della morte è legata alla nostra condizione di esseri immersi nel tempo; ma il tempo, per chi è felice, non conta nulla; dunque neppure la morte conta, nemmeno mentre siamo in vita. Perché allora preoccuparsi del domani? Da una parte c’è il cavaliere del Settimo sigillo, ossessionato dalla sua partita a scacchi con la morte, che non ha tempo per altro; dall’altra c’è Epicuro, che sa godere dell’attimo presente, consapevole di quanto sia meravigliosa l’esistenza, questa nostra esistenza nata dal puro caso e però insostituibile nella sua unicità. Carpe diem , per usare le parole di Orazio, così fiero di essere un porcus del gregge di Epicuro.
Qualcosa però continua a non tornare. La tesi di Epicuro è coerente, ma accettarla costa un prezzo molto alto: rinunciando al tempo rinunciamo ai nostri progetti, alle nostre aspirazioni, alle speranze che costituiscono la trama delle nostre giornate. Il risultato è insomma una riduzione al minimo di ogni coinvolgimento, e non è detto che sia un esito auspicabile. Non sarà che Epicuro è stato così bravo a togliere importanza alla morte, che alla fine ha tolto valore anche alla vita?
Giudicare se la soluzione di Epicuro sia valida è difficile: gli studiosi litigano, ma la risposta tocca a ciascuno di noi. Certo è che Epicuro ha imboccato la strada dei filosofi. L’obiettivo era di mostrarci che la felicità è possibile; per fare ciò, pur di offrire una dottrina coerente e non banali parole di buon senso, Epicuro ha scelto una tesi controintuitiva, che rovescia radicalmente il nostro sguardo su noi stessi e sulle cose. Così fanno i filosofi. È il destino a cui sono inevitabilmente condannati gli «anti». Come i professionisti dell’antipolitica devono poi riconoscere le ragioni della politica, così Epicuro, l’antifilosofo per eccellenza, si è alla fine rivelato per quello che era: un grande filosofo.