domenica 23 agosto 2015

Corriere La Lettura 23.8.15
L’ultimo mistero della vita
Chimica e biologia hanno consentito grandi scoperte in laboratorio. Ma c’è qualcosa che non arriveremo mai a capire. Ecco perché
di Giuseppe Remuzzi


Come è cominciata la vita? E perché non provare a ricrearla in laboratorio? Qualcuno ci ha provato. E oggi, grazie a quegli studi, abbiamo le idee un po’ più chiare. Nei prossimi anni ne sapremo certamente di più, ma c’è qualcosa che non arriveremo mai a capire.
Andiamo con ordine. Tre-quattro miliardi di anni fa il mondo era fatto di oceani e lande vulcaniche. La temperatura era di 60-70 gradi e c’erano pochissimo ossigeno, anidride carbonica e azoto. «Chissà — ha pensato Stanely Miller all’inizio degli anni Cinquanta — che fra gas e fulmini non si siano create qui sulla terra le condizioni per arrivare a composti organici, poi a proteine, infine alla cellula». Così, Miller ha fatto scoccare una scintilla in una camera piena di ammonio, metano e altri gas. A partire da questo si giunge, è vero, a composti organici e aminoacidi — che sono i costituenti fondamentali delle proteine — ma nella miscela di Miller i gas non erano quelli che c’erano sulla terra miliardi di anni fa.
Mentre i chimici si dibattevano immersi nelle loro difficoltà, si affermavano altre discipline. Le conoscenze sul Dna rivoluzionavano la biologia e le scienze della vita e cresceva in modo impressionante la geofisica. Fu allora che qualcuno si convinse che all’origine della vita si potesse arrivare senza bisogno della chimica. E tuttavia i problemi, con l’aumentare delle conoscenze, invece di diminuire crescevano.
Da che materiale si era partiti per arrivare al Dna? Come si sarebbero potute trasferire le informazioni contenute nel Dna da un organismo primordiale a quelli più evoluti? Aveva rilevanza il fatto che tutto questo avvenisse in un certo luogo della terra piuttosto che in un altro? Reperti geologici utili, che risalgano a quattro miliardi di anni fa, non ce ne sono e così a queste e a tante altre domande non sappiamo rispondere. E allora?
Non resta che affidarsi ancora alla caparbietà dei chimici che negli anni Novanta seppero usare, nella miscela proposta da Miller, i gas giusti. Ma in questo modo di aminoacidi non se ne formavano proprio. Gli scienziati si convinsero che Miller avesse preso un abbaglio e per un po’ non se ne fece più nulla — finché James Cleaves e Jeffrey Bada arrivarono a una nuova idea: aggiungere alla miscela di gas certi tamponi capaci di neutralizzare i composti azotati prima che potessero danneggiare gli aminoacidi. Il trucco funzionava. Restava da capire come passare dalla materia inanimata a una forma — per quanto semplicissima — di vita.
«Basta la chimica?» si chiede Addy Pross, che lavora all’Università Ben Gurion del Negev in Israele in uno studio recente. Forse no. Se la vita fosse scaturita da una combinazione super-fortuita di reazioni chimiche innescate dal caso, la possibilità che un evento del genere possa ripetersi da qualche parte dell’universo sarebbe virtualmente pari a zero.
Questo non è verosimile. Allora non resta che pensare che l’origine della vita dipenda da una serie precisa di eventi fisico-chimici, capaci di integrarsi con fenomeni biologici che rispondono ai dettami dell’evoluzione. La ricerca più recente è ormai orientata in questa direzione.
Qui però dobbiamo fare un passo indietro: una volta stabilito che a partire dai gas dell’atmosfera primitiva si arriva ai composti organici, resta da capire come si passa dalle molecole organiche all’acido ribonucleico (Rna). L’Rna è fatto di nucleotidi legati fra loro, ciascuno costituito da una base — la lettera dell’alfabeto dei geni — di una molecola di zucchero e di un aggregato di atomi di fosforo e ossigeno che legano ciascuno zucchero a quello che viene dopo. C’è chi ha speso la vita a tentare di sintetizzare l’Rna in laboratorio con basi e zuccheri da legare fra loro con dei fosfati, senza riuscirci.
Così alla domanda su come fosse arrivato sulla terra l’Rna nessuno per anni ha saputo rispondere. Adesso si sta facendo strada l’idea che la combinazione di eventi chimici che ha dato origine alla vita venga da un processo «autocatalitico», sostanze cioè in grado di favorire la loro stessa produzione all’interno di un sistema complesso, replicatori molecolari capaci di catturare la luce. Con questi presupposti gli scienziati sono stati in grado di arrivare all’Rna partendo da molecole semplici proprio come quelle che si trovavano sulla terra miliardi di anni fa.
Gli stessi ricercatori non conoscono tutti i dettagli del percorso che ha consentito loro di arrivare a questo straordinario risultato. Ma se lo si può fare in laboratorio non sorprende che l’Rna si sia potuto formare sulla terra spontaneamente in condizioni particolarmente favorevoli. Chi avrà governato quel processo? Nessuno lo sa. I sistemi biologici tendono spontaneamente alla stabilità e c’è una teoria recentissima — dynamic kinetic stability — che potrebbe spiegare come si passa da sistemi molecolari autocatalitici tanto semplici quanto fragili a forme di vita robuste e ad altissima complessità.
Scienziati di Cambridge sono convinti che le prime reazioni chimiche e la fase biologica che ne è seguita siano state sostenute da uno stesso processo e hanno provato a documentarlo. Quello che è certo per adesso è che tutte queste reazioni hanno bisogno di una certa temperatura e di un certo pH, proprio quello degli stagni di miliardi di anni fa, e serve una fonte di energia che venga dalla luce.
La vita è cominciata quasi certamente così, a partire dall’Rna, ma allora si deve ammettere che quest’ultimo è capace di replicarsi senza bisogno d’altro. Qui ci vengono in aiuto Tracey Lincoln e Gerald Joyce che hanno potuto dimostrare come in laboratorio i frammenti di Rna sanno servirsi di nucleotidi liberi per formare una molecola di Rna uguale alla molecola stampo già presente nella soluzione. Terminata la prima replicazione, vecchie e nuove molecole di Rna si separano diventando a loro volta stampi per una nuova replicazione. Ma per stabilizzare tale sistema, per arrivare a quello che chiamiamo vita, bisognava che sulla terra miliardi di anni fa l’Rna trovasse una dimora appropriata, come una cellula.
Di questo si è occupato Jack Szostak che per queste sue ricerche ebbe il Nobel nel 2009. Szostak e i suoi colleghi hanno dimostrato come l’Rna per raggiungere una maggiore stabilità sia ricorso a uno stratagemma: farsi intrappolare da acidi grassi e altre molecole grazie a cicli di alte e basse temperature. La sfida adesso è capire come queste protocellule con dentro l’Rna abbiano potuto evolvere verso forme cellulari più avanzate.
Certo è che dal caso alla complessità non si arriva senza un processo definito; c’è certamente in natura una driving force , una spinta insomma che orienta i sistemi biologici a replicarsi fino a raggiungere un sempre maggiore grado di stabilità per spiegare come si sia arrivati alla vita a partire da materiale inanimato. Ammettendo che sia davvero così, allora dovrebbe essere possibile quantificare tutto questo e risolverlo attraverso modelli matematici ad hoc pur complessi che siano. E invece, il processo che ha portato alla vita sembra essere unquantifiable , un modo per dire che con la matematica non ci si arriva.
Le variabili in gioco sono troppe e del tutto imprevedibili. A parte quelle legate agli individui, ci sono le variabili delle popolazioni e poi quelle degli ecosistemi che hanno condizionato l’evolversi della specie in un dato contesto. Riuscire a quantificare il processo che ha portato alla vita è quindi ancora un mistero. O potrebbe essere semplicemente fuori dalla nostra portata.