domenica 23 agosto 2015

Corriere La Lettura 23.8.15
Nel tempo della Festa
Abbiamo smarrito l’arte di sentirci comunità. Ci serve una Itaca per ricomporre il mondo
colloquio di Donatella Di Cesare con Vinicio Capossela


DONATELLA DI CESARE — Festeggiare è un’arte. Se nell’antichità la festa era ben nota, nel nostro mondo appare sempre più lontana e irraggiungibile. Non è difficile intuire perché. La festa è il tempo della liberazione a cui tutti sono chiamati — nessuno escluso. Di più: la festa è comunità, anzi, è la rappresentazione della comunità nella sua forma più completa e elevata. Solo quando la comunità si riunisce, quando si raccoglie, la festa può essere celebrata. Perciò la festa è un’opera d’arte che è comune e che accomuna. È come quando si danza in un cerchio prendendosi per mano. Così la comunità si ricostituisce festeggiando. Supera l’isolamento, l’estraneità, le divisioni prodotte dal lavoro, i conflitti della quotidianità. Ecco perché la festa è sospensione del lavoro, ingresso di un tempo altro. Vale, però, anche l’inverso: dove non c’è festa, dove non si sa più festeggiare, non può costituirsi neppure una comunità. Il nostro disincanto ci fa provare una intensa, acuta nostalgia per la festa, per la comunità, per un tempo in cui intrattenerci. Ma forse è possibile un nuovo incantamento….
VINICIO CAPOSSELA — Da tre anni in Alta Irpinia portiamo avanti un vecchio sogno, più che un festival una Festa, che abbiamo chiamato «Sponz Fest», per darci un’occasione di comunità. Viviamo in un mondo frammentato. Una comunità è una specie di unità iniziale, primigenia, spesso immaginata, una Itaca in cui ritrovare un senso di appartenenza. Questo, ancora più che nelle attività sociali e politiche, avviene nella Festa. Dal momento che Itaca è perduta per sempre, l’unico modo che abbiamo per ricomporre il mondo è la Festa. «Sponzare» significa inzupparsi, imbeversi, ammollare, perdere il recinto dell’individualità, perdere la rigidità della forma. È vero, la festa è una forma d’arte, come l’arte della Gioia, che passa per una ritualità, una celebrazione. L’arte della Festa è un’arte da prendere seriamente perché ci conceda il ri-creo. Un’arte in cui occorre essere generosi. L’ebbrezza, lo spirito dionisiaco, è una cosa che ci misura come uomini. I greci dividevano gli uomini dai barbari per la capacità di padroneggiare il vino, il dio che invade.
DONATELLA DI CESARE — Penso che tu abbia un concetto più greco, o pagano, della festa. La festa per me non è l’ebbrezza dei riti dionisiaci o dei saturnali romani. Piuttosto è la sospensione sabbatica, l’inoperosità, uno stato di eccezione. Non si contrappone ai giorni lavorativi, ne costituisce il compimento. Karl Kerényi, un grande storico delle religioni e dei miti, ha parlato della perdita della festa, che caratterizza la modernità, e l’ha paragonata alla condizione di chi danza senza ascoltare più la musica. Si continua a danzare nel frastuono, coprendo anche la perdita della musica. Festa e musica richiedono cadenza armonica, procedono con ritmo comune, dischiudono un altro tempo, il tempo dell’altro.
VINICIO CAPOSSELA — C’è sempre stato nell’uomo il bisogno di uscire da sé, della dissipazione, dell’Euforia (essere invasi dal dio). In una società così egoica (è un’epoca questa in cui ogni anno si vede Giove allo specchio, scriveva Céline), il consumo dissipatorio prende spesso strade individuali. Essere soli tra molti, urlare nel frastuono, sono comunque forme di ritualità che obbediscono a un istinto innato. Mircea Eliade diceva anche che abbiamo solo una pallidissima idea delle grandi Feste dell’antichità. Il cui presupposto era l’accumulo e il cui fine la dissipazione. Il Caos rituale che rigenerava l’ordine, quasi che la terra stessa ne avesse bisogno. Trovo l’eco di questo istinto nelle Feste dei Balcani, quando i suonatori forsennati vengono ricoperti, «decorati», come dicono, di banconote, fino a spendere tutto, a dissipare ogni accumulo. C’è una voluttà liberatoria nel mettere Dioniso in trono. Come se l’uomo riaffermasse la sua libertà dai beni, dall’accumulo.
DONATELLA DI CESARE — Ma nella festa esiste anche la dimensione del ricordo. Nel tuo romanzo Il paese dei coppoloni (Feltrinelli), che ha tono e afflato epici, si parla di musica che sa farsi ricordare. Ed è scritto: «Ma scendi per la costa giù fino allo scalo. Lì sta il fratello mio Vituccio, che tutto conserva. E vai dal compare suo Galluccio che alzava la polvere con la fisarmonica, e sta qui sulla Variante. Forse da loro la musica si fa ricordare. E da tanti altri, vivi e morti, che in molti hanno fatto arrivare l’eco di musica e musicanti per l’aria…». Non c’è festa senza ricordo. Senza un passato che torna, nella musica, ma anche nei gesti, nelle parole, nella celebrazione della festa. Ecco perché festeggiare vuol dire anche saper celebrare e commemorare. La comunità si estende a quelli che non ci sono più, ai «molti» che ci hanno tramandato note e sillabe per la festa del nostro presente.
VINICIO CAPOSSELA — Il tempo della Festa è un po’ come il tempo del mito… una crepa, una interruzione nel compatto tempo dell’Utile, dell’Accumulo, del Lavoro. Un tempo che vuole superare la caducità delle cose. Un tempo che ogni volta rinnova la creazione del mondo, un tempo per il superamento del confine di noi stessi. In questo senso la musica può essere una fonte originaria. Quando capiti ad Anoghia, a Creta, e vedi tutto il paese danzare una festa di nozze, non si può non vedere come quelle danze abbiano un’eco di duemila anni. Si comprende perché Zeus sia stato allattato sulle pendici dello Psiloristis che sovrasta il paese. Perché è in quelle danze. Suonare con la banda della posta, in cui diversi membri hanno suonato allo sposalizio di mio padre, è un altro modo per me di rompere il tempo e dare continuità all’Eco di una comunità.

DONATELLA DI CESARE — La festa è la liberazione della comunità. Si sciolgono vincoli e costrizione. Si annullano le disuguaglianze. Si toglie la schiavitù. La festa è tempo di riscatto. Festeggiamo anche per riscattare i vinti, per far sì che rivivano nel ricordo della polvere alzata dalla loro fisarmonica. Siamo attesi a quella Variante dalla loro musica e dal suo diritto di essere suonata.
VINICIO CAPOSSELA — Davanti al dio della Festa spesso si sono infranti i ruoli. Nelle Feste dei folli gli ultimi diventavano primi e viceversa. Nelle ritualità collettive più ancestrali si superava anche il confine tra uomo e animale. Davanti allo stadio, al vino e alla morte, siamo tutti uguali. Forse per questo la Festa infrange anche il confine della morte. Le musiche che la alimentano spingono l’euforia fino a dove sconfina col buio. Fino al terrore panico uguale per tutti: tornerà in vita il dio, o ce lo siamo frecato tutto?
DONATELLA DI CESARE — Non sorprende che per alcuni filosofi sia la festa a fondare la storia — non viceversa. Perché è l’incontro fra generazioni in cui rinasce e si rinsalda la comunità. Irrompe un tempo altro, in cui il più remoto passato viene ripreso per guardare al futuro. Perciò la festa ha un tratto utopico. È un assaggio dell’avvenire.
VINICIO CAPOSSELA — Penso sempre ai grandi festeggiamenti di Sposalizio che duravano giorni, le grandi feste semipagane della civiltà della terra. A Calitri si usava avvolgere la nuova coppia di fili di carta colorati, fino a renderla un’unica cosa, come l’involtino di carne del piatto nuziale. Danzargli intorno, stringerla, quasi che la comunità andasse a digerire la nuova coppia, inghiottendola, per potersi poi perpetuare a mezzo di essa. In quel momento, in quel ballo che non finiva mai, in cui si cadeva sponzati come il baccalà, tutto girava come nella danza dei dervisci, fondendo, centrifugando, passato e avvenire alla fiamma della Vita.
DONATELLA DI CESARE — Tu scrivi nel tuo libro della luna sul bosco: «Indorò di giallo il buio tra le fronde dei rami ritorti, lo fece ritrarre a folate. Prese quota e volò lentamente, imperante sul tempo. Prese il dominio del cielo e tolse la notte dagli occhi». La festa è un po’ come la tua luna: fa risplendere tutto in una nuova luce. È questo il suo splendore. Non gli ornamenti, ma quella veglia notturna in attesa che la luna si alzi. Allora quel che è quotidiano, consueto, abitudinario indietreggia. E l’inconsueto si fa largo. Le cose sono le stesse, ma nulla è più come prima. Lo splendore della festa fa apparire tutto nella sua luce essenziale.
VINICIO CAPOSSELA — Quel momento, quella veglia d’attesa, è il segnale affinché il nascosto, il mistikò , si sveli. Il segnale di liberazione per quanti vanno a «volta di luna». È la luce d’accesso al molteplice. Al femminile, all’inconscio. È il segnale per la libera uscita degli uccelli notturni, di cui non valgono nemmeno le penne. Non sono insomma utili da mangiare. È il segnale del privilegio dell’immaginazione. La Festa non è soltanto Euforia, è soprattutto poter reimmaginare il mondo, uscire dalla menzogna della realtà e avventurarsi nella Verità dell’immaginazione. La luce del plenilunio può consentire a una trebbiatrice di involarsi alla luna. Quella luna deve senz’altro risuonare di serenate, di lieder , di lamenti d’innamorati, ronzare di tutti i senni perduti sulla terra. Dà nuova luce alle cose. Per questo abbiamo scelto di svolgere la nostra festa nelle notti del plenilunio, in modo che ogni mulo mannaro possa ragliare alla luna.
DONATELLA DI CESARE — La festa è l’interruzione del presente, che domina incontrastato le nostre vite. È tempo pieno, tempo celebrato nella inoperosità festiva che invita a trattenersi, a indugiare, a partecipare. La festa è condivisione in cui non si resta spettatori, ma si viene coinvolti e innalzati a una nuova verticalità.
VINICIO CAPOSSELA — È differenza sostanziale essere spettatori di una festa, o prendervi parte. Personalmente amo più le musiche che si mettono a disposizione della Festa, che quelle che passano per la celebrazione di un artista a mezzo degli spettatori. Alle feste di sposalizio c’era una categoria che ho sempre amato, i cosiddetti «accappanti», i non invitati. Era la Passione a fargli l’invito, la sete di vita. Erano i martiri del Ricreo. Il Ricreo per loro era ogni atto che induceva gioia, dall’accoppiamento in poi. Erano martiri, perché sapevano che il dio della Festa esigeva il loro sacrificio. Dovevano essere disposti a dissiparsi affinché la Festa potesse rifulgere, consumante di Vita.