Corriere 29.8.15
Ottocento
I primi patti con la mafia
Le collusioni tra politica e criminalità risalgono alle origini dell’italia unita
di Paolo Mieli
La prima trattativa tra Stato e mafia è di centocinquant’anni fa. Centocinquantaquattro, per l’esattezza. A dicembre del 1861, pochi mesi dopo la morte di Cavour, parlando alla Camera dei deputati, il parlamentare Angelo Brofferio sostiene che «la maggior parte dei disordini che succedono in Italia» è da attribuirsi a forze di pubblica sicurezza in combutta con bande illegali: «Il governo non si accorge che la sua polizia è composta d’uomini i quali non hanno rossore di trattare coi ladri, cogli assassini, coi malfattori d’ogni specie». Proprio così: pezzi di Stato che, secondo Brofferio, «non hanno rossore di trattare» con i malviventi. La Camera reagisce con manifestazioni di scandalo che vengono messe a verbale. Ma Brofferio insiste: «Sì, o signori, coi ladri e cogli assassini, i quali, come si rivelò nei criminali dibattimenti, comprano l’impunità dividendo colla polizia l’infame bottino». Si riferiva, il parlamentare, ad un processo dell’estate precedente contro tre «agenti sotto copertura» che avevano intrallazzato con la «seconda Cocca», una banda criminale nata a Torino negli anni Cinquanta. Stiamo parlando del «processo Cibolla», il primo grande scandalo giudiziario dell’Italia unita, che aveva preso il nome da Vincenzo Cibolla, il quale si era autoaccusato di diversi reati (tra cui lo stupro di una bambina) e aveva denunciato le collusioni di cui all’intervento di Brofferio.
È di qui che prende le mosse un saggio di straordinaria importanza scritto da Francesco Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878 , che l’Einaudi si accinge a mandare in libreria. L’importanza del libro di Benigno è data dalla coraggiosa descrizione di come Destra e Sinistra storica (e quest’ultima forse più ancora della prima) intrattennero rapporti con la malavita organizzata fin dalla fondazione del nostro Stato unitario. Anzi, Destra e Sinistra quasi incoraggiarono mafia, camorra e altre associazioni banditesche a trasformarsi in quello che sarebbero diventate un secolo dopo.
Malgrado il nostro Paese sia da tutti percepito come la culla di particolarissime associazioni di malavita organizzata (mafia e camorra in primis ) «la storiografia», afferma Benigno, «non ha prestato la giusta attenzione al ruolo cruciale giocato dalla gestione dell’ordine pubblico nel processo, difficile e tumultuoso, di allargamento della partecipazione politica». La ragione di questa «limitata attenzione storiografica per le prassi informali di gestione della pubblica sicurezza» deriva in fondo «dall’ambiguità della cultura liberale rispetto ai limiti, e quindi ai confini, della cittadinanza». Vale a dire «dal bisogno di costruire un doppio sistema di legalità, uno in vigore per il cittadino qualificato (maschio, bianco, proprietario e istruito) e uno per gli esclusi da quel quadro di libertà costituzionali, pur teoricamente valido per tutti». Così la storia di questi nessi non è mai stata analizzata con scrupolo per «quella sorta di ritegno ad approfondire la questione delle prassi poliziesche, sentite come intimamente ripugnanti», scrive Benigno. Una reticenza, prosegue, «che dai testi d’epoca è transitata nelle pagine degli storici».
Il suggerimento dello studioso è quello di analizzare la malavita organizzata e le sue interrelazioni con la politica nello stesso modo asettico di cui ci serviamo quando ci applichiamo alla massoneria. Nessuno pretenderebbe, scrive, «di studiare i massoni ottocenteschi (ma anche novecenteschi) come se fossero “solo” massoni, e non, per dire, patrioti, avvocati, socialisti, proprietari terrieri e membri di associazioni dedite vuoi alla filantropia vuoi allo spiritismo». Lo stesso «dovrebbe valere per lo studio di mafiosi, camorristi e malfattori del XIX secolo che di sicuro non vivevano in un mondo separato e immaginario, dal cui humus criminogeno sarebbero stati autonomamente e misteriosamente germinati».
Di camorristi e mafiosi si parlava già prima del 1861. Ce n’è traccia nella celeberrima lettera del deputato inglese William E. Gladstone a lord Aberdeen (1851), in cui si stigmatizzava la dominazione borbonica negli ultimi anni di vita del Regno delle Due Sicilie. Si trattava, però, di malavitosi d’infimo rango al servizio di più padroni, la cui attività era confinata nelle carceri e nei quartieri più malfamati delle città meridionali. Nella Palermo liberata da Garibaldi (estate del 1860) qualche contatto improprio viene addebitato a Giuseppe La Farina, l’emissario di Cavour, «l’unico domatore creduto capace di ammansire le tigri della sovversione». Stesso discorso vale per Napoli e per l’uomo a cui, da Torino, il presidente del Consiglio affiderà la pubblica sicurezza: Silvio Spaventa. Questi, che pure aveva avviato una campagna di disinfestazione dai camorristi promossi e legittimati da Garibaldi, ad un certo punto verrà accusato dalla stampa democratica di utilizzare per le sue mire «metodi illegali non troppo diversi da quelli adoperati dalla famigerata polizia borbonica».
Ma l’uomo simbolo di questa stagione di passaggio di regime, resta Liborio Romano, un liberale a cui Francesco II si era affidato negli ultimi giorni di regno e che aveva mantenuto i suoi incarichi al momento della dittatura di Garibaldi. Di più: Liborio Romano aveva gestito la transizione dal regime borbonico a quello garibaldino garantendo l’ordine pubblico grazie ad un esplicito accordo con i principali boss della malavita organizzata. Accordo che si perpetuerà nelle prime settimane di gestione del potere da parte dell’eroe dei due mondi. Al punto da mettere in agitazione il comandante dei carabinieri, generale Trofimo Arnulfi, che il 29 novembre del 1860 così scriveva a Spaventa: «La feccia al presente più temibile in Napoli… sono i camorristi, audaci, sanguinari ed armati; sono costoro padroni della sicurezza pubblica, di mettere in azione con denaro i lazzaroni a danno di coloro che si potranno vedere terrificati». Questa gente, secondo il generale, è senza dubbio alcuno, «vera canaglia». Arnulfi annuncia il proponimento di parlarne con il luogotenente di Vittorio Emanuele II: «Opinerò per un colpo di Stato contro i camorristi in carica, poiché non si potrà essere sicuri finché parte dell’autorità sta in loro potere». Ma la stampa torinese saluta l’integrazione dei camorristi nel nuovo regime come un positivo «segnale del mutamento degli orientamenti profondi della plebe napoletana», nota fino a quel momento «per le sue tendenze controrivoluzionarie e sanfediste».
Come si può vedere, un bell’intreccio di contraddizioni. E un atteggiamento complessivo da parte dei «liberatori» tutt’altro che di contrasto alla malavita, la quale, anzi, è da subito in rapporti con «la nuova politica». In primis , Giuseppe Garibaldi. Garibaldi e la sinistra vengono implicitamente accusati dai seguaci di Cavour di proteggere quella «setta di birboni» che si trova «nelle prigioni, nelle case di prostituzione, di gioco». I garibaldini respingono le accuse e le ribaltano contro Spaventa. L’occasione propizia per questo ribaltamento si presenta con l’affare del «Virgolatoio» (da virgola, mazza), una squadra di bastonatori assunti da Spaventa per contrastare i camorristi fatti entrare nell’amministrazione napoletana da Liborio Romano. Uno di loro, Giuseppe D’Alessandro, in arte «Peppe l’Aversano», era stato misteriosamente accoppato e, per ritorsione, qualcuno aveva fatto fuori il caporione Ferdinando Mele, messosi in luce per essersi a suo tempo schierato contro il regime borbonico e gran nemico del «Virgolatoio». Si era poi scoperto che ad uccidere Mele era stato Salvatore de Mata, detto «Torillo» o anche «Bello guagliò», uno degli uomini di Spaventa. Il quale Spaventa il 18 luglio 1861, a causa dello scandalo, era stato costretto a dimettersi. Con grande gioia del generale Enrico Cialdini, formalmente schierato dalla sua parte, ma suo acerrimo rivale.
Successivamente la lotta alle commistioni tra politica e malavita sarà un cavallo di battaglia della Destra storica contro la Sinistra mazziniana e garibaldina. Che andrà di pari passo alla campagna militare contro le rivolte al Sud qualificate tutte come «brigantaggio». Di briganti certo ce n’erano in giro, più d’uno, ma l’intento di inquadrare in quella categoria ciò che accadde al Sud tra il 1861 e il 1865 era ad ogni evidenza propagandistico. E i parlamentari che avevano partecipato ai moti del 1848 cominciarono a mettere in dubbio la buona fede di chi vedeva dappertutto un problema di «maffia» (così si diceva allora).
Ad esempio il deputato siciliano Paolo Paternostro il 5 giugno 1875 disse in Parlamento che chi usava quel termine si adeguava ad una «moda»: «Il primitivo senso di questa parola si è alterato ed oggi maffia pare voglia dire tutti i reati previsti e direi anche non previsti dal codice penale; molti prefetti chiamati a definire i maffiosi, si imbrogliarono…». Ma proprio in quell’occasione Diego Tajani ex procuratore del re a Palermo, in quel momento deputato nelle file dell’opposizione, si disse certo dell’esistenza di quell’organizzazione malavitosa: «Il negare che la maffia esista significa negare il sole… è qualcosa che si vede, che si sente, che si tocca pure troppo». Tajani, racconta di come, giunto a Palermo e resosi conto dell’andazzo, e cioè «della cogestione dell’ordine pubblico affidata ai criminali», avesse scritto una lettera a una persona autorevole per chiedergli «a che giuoco si giuocava» e questi aveva risposto che solo arruolando i «maffiosi» si sarebbe potuto «poi» debellare la «maffia». Attenti, diceva l’ex procuratore di Palermo, la maffia esiste ed è temibile «non tanto perché pericolosa in sé ma in quanto strumento di governo e perciò forte di una rete invisibile di protezioni». Il dado era ormai tratto. Con un improvviso cambiamento tattico uno dei capi della Sinistra, Agostino Bertani, cercò di approfittare del discorso di Tajani per un affondo contro la Destra, chiedendo un cambio di sistema che significava anzitutto un mutamento di classe dirigente. E di lì a un anno, nel 1876, Destra e Sinistra si dettero il cambio.
Dopo il passaggio a sinistra e la salita al governo di Agostino Depretis, le cose andarono anche peggio. A Palermo giunse come prefetto Luigi Zini, noto per aver «avversato le deviazioni extralegali del potere esecutivo». Zini si fiderà del ministro dell’Interno Giovanni Nicotera, ma resterà spiazzato dal mutamento di linea allorché lo stesso Nicotera, nel giro di poche settimane, influenzato dal suo segretario, il potentino Pietro Lacava, si allontanerà, scrive Benigno, «da quell’indirizzo legalitario e garantista con cui aveva inaugurato il suo mandato». Si avvera la profezia di Luigi Settembrini, per cui «coloro che un tempo si mescolarono nelle cospirazioni e nelle sette, non possono far bene i ministri». E quando vengono le elezioni politiche (novembre 1876), il successo della Sinistra è «conquistato» grazie, anche, ad accordi con la malavita.
Poi, ottenuti i voti nel modo di cui si è appena detto, Nicotera si presenta come uomo d’ordine e di «sicurezza ad ogni costo». Contro i socialisti. Il ministro approfitta di un caso specifico: l’ammonizione per mafia di Francesco Sceusa, esponente di un piccolo gruppo internazionalista trapanese e animatore di un giornale socialista del luogo, «Lo Scarafaggio». In Parlamento, Nicotera accusa Sceusa di essere «un mafioso ammantato con la veste di uomo politico». Di più, allarga il discorso dicendo che «i socialisti sono mafiosi in Sicilia, camorristi a Napoli, accoltellatori nelle Romagne». La «Gazzetta d’Italia» contrattacca e accusa Nicotera di esser stato la spia che nel 1857 aveva provocato il fallimento della spedizione di Carlo Pisacane a Sapri (alla quale il ministro, pure, aveva partecipato). Sostiene Benigno che si trattò di un «regolamento di conti all’interno della sinistra» tra Nicotera e Francesco Crispi, appena escluso dal governo. La sinistra intransigente, di Benedetto Cairoli e Giuseppe Zanardelli, a questo punto, si scatena contro il ministro, inaugurando una prassi che farà proseliti nei decenni successivi (fino ai tempi nostri) definendolo come «più autoritario, illiberale e corruttore» dei suoi predecessori. Nel contempo, Nicotera guadagna l’appoggio di commentatori moderati del calibro di Giacomo Pagano e Ruggiero Bonghi.
Sono le premesse del fenomeno che prenderà il nome di «trasformismo». A quel punto Depretis molla Nicotera e recupera, al ministero dell’Interno, Crispi. Il quale però sarà costretto a dimettersi allorché il «Bersagliere», un giornale che fa capo a Nicotera, lo accuserà di bigamia. Il nuovo re, Umberto I, per uscire da questa situazione intricata, offrirà la guida del governo a Cairoli che avrà con sé Zanardelli. Ma non finirà qui. Il prefetto di Palermo, Antonio Malusardi, tira fuori un dossier da cui risulta che in un possedimento della Real Casa, la tenuta della Favorita, vengono ospitati «personaggi sospetti». Uno dei guardiani sarebbe l’ammonito Francesco Cinà, mentre il capo dei guardiacaccia è Camillo Cusumano, considerato un «temibile mafioso» e già arrestato otto volte. La vicenda della Favorita, scrive Benigno, «mostra ancora una volta come i legami con le “classi pericolose” vengano usati alla stregua di strumenti di regolamento di conti fra gruppi di potere». In tutto questo libro si ha l’impressione di leggere pagine che non si riferiscono solo agli anni che vanno dal 1861 al 1878.