sabato 29 agosto 2015

Corriere 29.8.15
La morte di Wesolowski, l’ex vescovo accusato di pedofilia
Aveva 67 anni, oggi l’autopsia. Arrestato nel 2014 su disposizione di Francesco, il processo era stato rinviato
Quelle notti nell’ombra tra i piccoli in vendita sulle spiagge dei Caraibi
Fu il suo diacono, finito in carcere, a denunciarlo
di Goffredo Buccini


L’ orco che teneva nascosto in fondo all’anima era italiano: Jozef Wesolowski si faceva chiamare «Giuseppe» dai bambini, lì sul Malecòn di Santo Domingo, che dovette riuscirgli irresistibile già dalla prima sera, come il fuoco per una falena. Quindici chilometri di vite in vendita su quella striscia di palme e asfalto lungo il Mar dei Caraibi, ragazzette e gigolò tra le luci dei casinò, gli alberghi americani, le stanze sudate dei predatori del sesso. Piccoli corpi mandati lì dalle mamme per comprare il frigorifero alla famiglia o un paio di jeans decenti: « Que quieres, señor ?».
Dicono che aspettasse nell’ombra, sul suo fuoristrada Suzuki con targa diplomatica vaticana, in qualche vicolo laterale, il rosario sullo specchietto retrovisore, il demonio per compagno di viaggio, col cappellino da baseball calato sulla fronte come uno dei mille vecchi turisti di quel turismo innominabile. Alla fine dell’attesa Francisco, il suo diacono, gli portava un blanquito , un piccoletto chiaro di pelle, lui così li preferiva, dicono. E così, notte dopo notte, l’arcivescovo polacco che Wojtyla aveva mandato nel mondo come nunzio apostolico trascinava se stesso e chi gli stava accanto verso l’inferno in terra. Quando Francisco Occy Reyes venne infine arrestato, a giugno del 2013, e crollò quasi subito tirandolo in ballo, erano trascorsi cinque anni così: e, chissà, forse fu anche una liberazione.
Perché monsignor Wesolowski portava con sé lo stigma della malattia in versione digitale: centomila file di foto e filmini di bambini e ragazzini gli hanno trovato nel computer, consegnando così una volta per tutte la sua storia di povero prete polacco a «Giuseppe», l’orco italiano, il doppio in cui si trasformava. Una storia che è diventata simbolo, travalicando la sua cifra umana, come sempre accade in questi casi.
Simbolo di vergogna, certo, perché l’arcivescovo è morto senza possibilità di riscatto, all’alba di una insonne notte d’agosto davanti alla tv, nel bel mezzo del suo processo scandaloso, primo dignitario vaticano a finire agli arresti domiciliari per esplicita volontà del Papa. Ma anche segno inequivocabile di rinascita. Perché con lui Bergoglio ha battuto contro la pedofilia il colpo più forte del suo ancor breve papato, proseguendo la strada intrapresa con coraggio da Ratzinger: nessuno sconto, nessuna tutela, massima collaborazione con gli uffici giudiziari degli altri Paesi sulle piste di monsignore. Ridotto allo stato laicale, Jozef aveva proposto appello, ma accanto al processo canonico s’era trovato addosso il processo penale, esito ultimo di due commissioni Onu che avevano indagato su di lui. Soffriva di cuore, un malore alla prima udienza l’aveva collocato in un limbo d’attesa. Dormiva in piazza Santa Marta, a pochi metri dal Pontefice che aveva messo un punto a quella sua storia di cui tutti sapevano a Santo Domingo. Il prete che s’era perduto e il prete che, fermandone la corsa folle, stava in fondo provando a salvarlo.
Dicono che, prima di mandare il fido Francisco a reclutarle, osservasse le sue piccole prede da una terrazza di un ristorante sul Malecòn: sosteneva di «aiutare i minori a rischio», ma i dominicani l’avevano capito, erano addestrati a riconoscere quelli come lui. È andata così per decenni. La differenza, da qualche anno, sta nell’atteggiamento della Chiesa.
Sicché la caduta rovinosa di Jozef Wesolowski assume anche il sapore di un parziale risarcimento per il tempo quasi infinito del grande buio. Quegli anni in cui il fondatore dei Legionari di Cristo, Maciel Degollado, messo sotto processo proprio per volere dell’allora cardinale Ratzinger, godette di formidabili protezioni e coperture, nonostante pile di fascicoli contro di lui. Quegli anni, era il 2002, nei quali la Chiesa americana fu scossa dallo scandalo della pedofilia con decine di preti coinvolti e richieste di risarcimento per oltre cento milioni di dollari che portarono alla bancarotta la diocesi di Boston. A capo di quella diocesi c’era il cardinale Bernard Law, che si sognava primo Papa americano. Non andò così, la sua ascesa al soglio di Pietro fu fermata da un inarrestabile effetto domino, quando emersero tutte le coperture che per decenni Law aveva offerto a preti più volte denunciati da bambini e famiglie, limitandosi a spostarli qua e là, sempre a contatto con nuove vittime. Law fu solo trasferito da Papa Wojtyla: arciprete di Santa Maria Maggiore, a Roma. Per misericordia cristiana, certo. Ma, forse, anche perché il Papa santo diffidava sin da ragazzo di un certo tipo d’accuse che, nei regimi comunisti, venivano usate assai spesso per stroncare i sacerdoti scomodi e coraggiosi.
In America, tuttavia, andò diversamente. Uno dei bambini di Boston si chiamava Phil Saviano: il prete che lo violentava era anche il suo confessore, sicché Phil, undicenne, non sapendo bene come confessarsi, usava sempre la stessa formula: «Ho risposto male a mia madre, ho pestato mio fratello e... tu sai il resto». Phil, e tanti bambini come lui, hanno poi trascorso la vita a lottare contro depressione e incubi: come capiterà negli anni a venire alle piccole vittime di monsignor Wesolowski. Ma Phil è anche tra quelli che hanno avuto il coraggio di raccontare, di liberarsi. Dalla storia sua e dei troppi come lui è nato un film, Spotlight , che significa «riflettori»: un faro sulla verità. Perché alla fine, sì, davvero solo la verità può liberarci. E, ce ne fosse stato il tempo, avrebbe forse liberato persino Jozef da un mostro chiamato Giuseppe.