sabato 29 agosto 2015

Corriere 29.8.15
La Lettera «La sinistra ateniese e quella di scuola italiana che si ispira all’Europa»
di Miguel Gotor
senatore pd

Caro direttore, non so se sta nascendo una nuova sinistra di scuola ateniese, come suggerito da Paolo Mieli in un pungente articolo di ieri l’altro. So per certo però che la sinistra di scuola italiana è viva e lotta fra noi e continuerà a farlo dentro il Pd che, se vuole rimanere un grande partito e, magari vincere le prossime elezioni (il che non guasterebbe), farà bene ad abituarsi a ciò. Il dilemma scissione/obbedienza è un falso problema che non tiene conto della dimensione di lungo periodo in cui inserire il progetto del Pd, riassumibile nella formula: i segretari passano, il progetto resta. L’incontro tra quel po’ di riformismo esistito nelle culture politiche italiane di diversa matrice (dalla cattolica alla comunista, alla socialista, all’azionista, alla liberale), la volontà di mettersi alle spalle un Novecento grande e terribile, l’apertura al civismo e a una dimensione della partecipazione e della democrazia dell’alternanza promosse dall’Ulivo sono qualcosa di più significativo che non la singola parabola di Renzi, con le sue virtù e i suoi limiti, o dei suoi predecessori.
L’eredità del Novecento italiano peggiore, quello dello stalinismo anni Cinquanta e del settarismo gauchista degli anni Settanta, vorrebbe costringerci a una dialettica tra centralismo democratico e frazionismo, culto del capo e avventura minoritaria. Il nostro obiettivo è costruire un soggetto politico europeo sul modello dei partiti socialisti e conservatori tedeschi, francesi e spagnoli. In quelle realtà può accadere che su snodi cruciali di politica economica o istituzionale i parlamentari votino contro il proprio Governo (è avvenuto l’altro ieri in Germania con la Cdu, qualche mese fa in Francia con i socialisti) senza che questo debba necessariamente aprire le porte a una scissione con relativa scomunica: a prevalere sulle singole divisioni sono un passato e una prospettiva condivisi. Non vedo il manifestarsi di una sindrome Lafontaine né rischi di scissione. Fin quando Renzi governerà grazie ai voti del Pd nel 2013 sarà legittimo impedire un riposizionamento centrista di quel partito che lo porterà, se l’attuale legge elettorale non subirà modifiche, a candidare esponenti di Ncd e del mondo moderato italiano. Non condividiamo questo disegno per i suoi tratti trasformistici e consociativi, ma solo restando nel Pd esso potrà essere impedito o comunque arginato. Il punto cruciale è: dove va il Pd? La risposta non è lasciarlo andare via, disarmando il suo profilo di sinistra e così garantendo un’uscita patteggiata dal berlusconismo, che ovviamente, come sempre in Italia, si traveste della retorica della rottura e del cambiamento per il cambiamento, senza aggettivi e direzione. Il Pd dovrà presto scegliere se imbarcare pezzi di destra o ricostruire un centrosinistra di respiro europeo, che oggi significa, vista l’afasia dei socialisti, contrastare con più decisione l’ortodossia tedesca dell’austerità che alimenta ovunque movimenti populistici e forze antisistema. Per riuscire nell’impresa serviranno apertura civica e un serio confronto anche con le spinte più radicali della sinistra fuori dal Pd.
Renzi è libero di continuare a edificare ogni giorno, tra gufi, sabotatori e vietcong, il proprio nemico interno da schiaffeggiare. Abbiamo spalle larghe, qualche convinzione e tanta pazienza, ma i risultati delle recenti elezioni amministrative dovrebbero far riflettere sui limiti di questa strategia che rischia di farci perdere le elezioni perché sega l’albero dove è seduto e sottovaluta una scissione silenziosa che riguarda l’elettorato del Pd. E nel frattempo i due forni di destra su cui ha costruito la propria avventura politica si stanno chiudendo perché ormai intenzionati a lavorare per sé. Insomma, Mieli ha ragione: a Renzi, ora come ora, servirebbe come il pane un nuovo Lafontaine, ma appunto per questo non lo troverà.