venerdì 21 agosto 2015

Corriere 19.7.15
L’opera al nero di Le Corbusier
Rifondò l’architettura ma era un antisemita che lodò Hitler e progettò per il regime di Vichy
di Pierluigi Panza


Troppo grande e, come tutti i grandi, a guardare bene dentro scopri troppe debolezze. Cinquant’anni fa, il 27 agosto 1965, moriva il rifondatore dell’architettura, il padre del Movimento Moderno, il progettista che ha mandato in pensione il tetto e le tegole, le finestre e le tapparelle e si è messo a costruire volumi nella luce, vetrate a nastro, tetti-giardino, pilotis che sollevano l’edificio da terra. Il tutto secondo l’unità di calcolo del Modulor , ovvero un uomo a braccio alzato come misura (in genere minima) di tutte le cose costruite.
Su Le Corbusier le celebrazioni si stanno moltiplicando, dalla mostra al Beaubourg di Parigi fino a quelle in Svizzera, dai convegni al Maxxi di Roma a quelli nelle università. La sua influenza si è sparsa nel mondo, da Chandigarh in India all’America, la sua poetica è stata l’ultima attraverso la quale l’architettura è diventata una forma di filosofia pratica che ha cambiato l’esistenza delle persone, ha investito tutte le scale — dal cucchiaio alla città, come si era soliti dire. Ha spogliato l’architettura da ogni orpello, da ogni maschera, restituendole un attestato di verità. Ha costruito una settantina di edifici in dodici Paesi, scritto più di cinquanta testi, primo tra tutti Vers une architecture , ultima teoria dell’architettura e Bibbia della modernità. Ha dato fiato a un mantra della Modernità, less is more , che ritroviamo anche nel recente Le Corbusier. L’arte decorativa , a cura di Domitilla Dardi (Quodlibet).
Premesso tutto questo, che rende ragione dei tributi, alcuni libri usciti per l’anniversario rivelano anche il volto opportunistico che si nascondeva dietro i grandi occhialoni tondi e l’immancabile farfallino di Charles-Edouard Jeanneret (questo il suo vero nome), nato a La Chaux-de-Fonds il 6 ottobre 1887. Debolezze e opportunismi che si sommano, per alcuni critici, ai discutibili esiti, come modelli per le periferie urbane, della sua Unité d’Habitation di Marsiglia, conosciuta anche come Ville Radieuse , che tuttavia di radioso ha poco.
Tre libri, Le Corbusier, un fascisme français di Xavier de Jarcy (Albin Michel), Le Corbusier, une vision froide du monde di Marc Perelman (Michalon) e Un Corbusier del critico e direttore di «L’Architecture d’aujourd’hui» François Chaslin (Seuil) danno la consueta spallata al mito, sebbene di alcune strizzatine d’occhio di Le Corbusier ai totalitarismi del Novecento già si sapesse. Ma se la «sua visione estetica non può essere separata da quella politica», come afferma François Chaslin e come, per decenni, è stata presentata nelle università europee, perché alla mostra al Centre Pompidou inaugurata lo scorso aprile ( Le Corbusier. Mesures de l’homme ) e alle molte che si moltiplicano (al Yap Fest del Maxxi è stato proiettato il film Le Corbusier, 50 storie di incontri che hanno rivoluzionato il design ), manca proprio il rapporto tra l’architetto e la storia politica dei suoi tempi? Semplice, secondo gli autori dei tre libri citati: «Il mito che circonda ancora Le Corbusier è che sia stato il più grande architetto del XX secolo e anche un uomo generoso, un poeta», afferma de Jarcy. «Ma questa è una grande bugia collettiva».
Già intorno al 1925 Le Corbusier è affascinato dal fascismo italiano, si avvicina al Faisceau di Georges Valois in Francia, stringe legami con il medico filo-eugenetico Pierre Winter e con l’esoterista René Guénon, i cui scritti appaiono comunque molto diversi dai toni illuministici di quelli dell’architetto, sebbene entrambi gli autori risultino un po’ apocalittici. Quando il maresciallo Pétain si trasferisce a Vichy (1 luglio 1940), dopo due giorni lui lo segue. E dal governo collaborazionista di Vichy, nella persona del ministro degli Interni, Marcel Peyrouton, Le Corbusier ottiene la nomina per la ricostruzione di aree urbane distrutte e per far parte della commissione per la nuova edilizia. Si potrebbe continuare, tanti sono i legami: forse sarebbe diventato l’Albert Speer di Vichy, l’equivalente francese del progettista di Hitler (ma il rapporto con i committenti è un classico dell’architettura).
Le Corbusier mostra una visione anche peggiore quando scrive alla madre. È il 1940: «Gli ebrei — annota — stanno andando incontro a un brutto periodo. Sono contrito. Ma sembra che sia a causa della loro cieca sete di denaro che ha corrotto il Paese». In agosto aggiunge: «Il denaro, gli ebrei, la massoneria, tutto questo subirà la giusta legge». Ancora, in ottobre: «Hitler può coronare la sua vita con un’operazione grandiosa: la pianificazione dell’Europa».
Tuttavia continuò naturalmente a costruire per ebrei svizzeri. Del resto i suoi erano pensieri condivisi da parte dell’intellighentia e Le Corbusier era persona che diceva ciò che la gente (o anche sua madre) voleva sentirsi dire, come ha affermato Nicholas Fox Weber, autore della biografia Le Corbusier. A Life del 2008, al «New York Times».
Questi scenari resterebbero solo il retrobottega del grande architetto, una visione da «senso comune» o il rimosso biografico se non conferissero anche una nuova interpretazione al suo Modulor , ovvero a quella «gamma di misure armoniose per soddisfare la dimensione umana, applicabile universalmente all’architettura e alle cose meccaniche» (Le Corbusier). Ovvero alla base della sua architettura. Definire un progetto partendo da questo Modulor è sempre stato ritenuto dai custodi del Movimento Moderno un approccio umanistico, antropocentrico e quasi spiritualista. Ebbene, specie secondo Perelman, alla luce di quanto emerge dalla biografia anche questa interpretazione va rivista: Il « Modulor è una forma di matematizzazione del corpo, di standardizzazione del corpo e di razionalizzazione». Qualcosa di molto lontano dalla base per fondare un’architettura a dimensione umana, insomma.
La sua urbanistica, poi, ovvero il Plan Voisin elaborato negli anni Venti per Parigi, diventa agli occhi di queste osservazioni, e delle successive teorizzazioni, quasi il modello impositivo per realizzare una «Società chiusa», che controlla le masse, e in cui si rivela la dimensione ideologica del progettista e, forse, della progettazione stessa.
Quel tratto di città ideato da Le Corbusier, che intende replicare il Marais con 18 torri di vetro su rettangoli verdi, sembra un luogo «in cui l’individuo è distrutto dal gruppo», scrive de Jarcy. Le successive sperimentazioni del Movimento Moderno nelle periferie urbane lo hanno spesso dimostrato.