giovedì 9 luglio 2015

Repubblica 9.7.15
Perché amore vuol dire naufragio
In una relazione sentimentale “andare a fondo” e “salvarsi” sono due aspetti coesistenti Niente come l’abbandono dimostra la vulnerabilità e la finitezza della condizione umana
di Michela Marzano


“Se volete avere la certezza che il vostro cuore rimanga intatto,non donatelo a nessuno”diceva C.S.Lewis
IL FESTIVAL Anticipiamo parte della lectio che Michela Marzano terrà domenica prossima 12 luglio a Pesaro, nell’ambito del festival Popsophia che si tiene da oggi alla Rocca Costanza Il tema è “Allegria di Naufragi” Tra gli ospiti della rassegna: Remo Bodei, Achille Bonito Oliva, Umberto Curi, Massimo Recalcati www.popsophia.it

«Non vi è più soggetto-oggetto, ma breccia spalancata tra l’uno e l’altro», scrive Georges Bataille parlando dell’amore. «E nella breccia, il soggetto e l’oggetto sono dissolti; vi è passaggio, comunicazione, ma non dall’uno all’altro; l’uno e l’altro hanno perso l’esistenza distinta ». Ma se l’uno e l’altro non sono più separati, non c’è allora il rischio di perdersi per sempre? E quindi di trasformare
l’amore in un naufragio, nonostante il giustapporre termini come “amore” e “naufragio” sembri a prima vista un vero e proprio ossimoro?
In realtà, tutto dipende da cosa si intende esattamente per naufragio, visto che la parola ha diversi significati e che, se da un lato rinvia alla “rovina” e al “fallimento”, dall’altro lato rinvia anche al “dolce smarrirsi” di leopardiana memoria, e quindi a un perdersi momentaneo, prima di approdare nuovamente in un porto sicuro. Ma allora in che senso e in che misura si può accettare l’indistinto senza andare alla deriva? Che cosa si può smarrire e che cosa si deve invece ritrovare per evitare il fallimento e il naufragio dell’amore?
Per Freud, padre della psicoanalisi, si diventa autonomi solo nel momento in cui si è capaci di mantenere «linee di demarcazione chiare e nette » tra sé e gli altri. Si può amare in modo “normale” solo grazie a un doppio processo di separazione: bisogna prima separarsi dalla madre, poi differenziarsi dal mondo. E anche se al culmine dell’innamoramento i limiti tra l’io e il tu rischiano di essere cancellati, l’abbandono all’altro non dovrebbe mai essere totale e definitivo. La capacità di ritrovare i propri confini dopo i momenti di rapimento erotico è infatti la chiave di volta dell’identità personale di ognuno; è ciò che evita di scivolare nel non-senso dell’indistinto e della confusione; è ciò che impedisce il naufragio definitivo. Certo, non c’è amore senza abbandono. Non c’è amore senza il rischio di mettersi a nudo e di mostrare all’altro le proprie fragilità e le proprie contraddizioni. Esattamente come l’altro si abbandono a noi e accetta il rischio di togliersi la maschera dell’indipendenza e dell’autosufficienza. Ma l’amore fallisce inesorabilmente se si pensa che tutto si riduca a un reciproco possesso. Quel “tu sei mio o mia” che non può che soffocare. Perché nessuno appartiene a nessuno. (…) L’amore naufraga se non si è disposti a lasciarsi andare e se non la si smette di controllare tutto. Se non si capisce che ci sono tante cose che non dipendono da noi e se non si accetta di abbandonarsi almeno parzialmente all’altro. Ma naufraga anche se ci illudiamo che, con l’altra persona, potremo un giorno sperimentare di nuovo la gioia della fusione e dell’indeterminatezza che si è sperimentata durante l’infanzia. Il “poter-essere- soli”, come scrive il filosofo tedesco Axel Honneth, «costituisce il polo soggettivo di una tensione intersoggettiva, della quale il secondo polo è la capacità di fusione illimitata con l’altro». Perché se non c’è amore senza fusione, non c’è amore nemmeno senza la capacità, talvolta, di costruire e proteggere una distanza di sicurezza. Accettando che i dubbi non scompaiano mai. Esattamente come l’incertezza che avvolge il desiderio. Chi potrebbe d’altronde essere così folle da pensare di sapere esattamente chi è e che cosa vuole? (…) «Amare significa, in ogni caso, essere vulnerabili», disse un giorno il romanziere britannico C. S. Lewis. Subito prima di concludere: «Qualunque sia la cosa che vi è cara, il vostro cuore prima o poi dovrà soffrire per causa sua, e magari anche spezzarsi. Se volete avere la certezza che esso rimanga intatto, non donatelo a nessuno». Unico modo, per Lewis, per evitare il naufragio. Unico modo, in fondo, per non smarrirsi definitivamente. Dimenticando, però, che la vulnerabilità è parte della condizione umana e della sua finitezza. E che anche se decidessimo di restare per sempre da soli, dovremmo comunque fare i conti con tutto quello che ci manca, quello che non siamo, quello che non avremo mai. La famosa “mancanza ontologica” di cui parla un altro grande psicanalista, Jacques Lacan. Quella ferita che ci portiamo dentro perché nessuno di noi può mai “essere tutto “ o “avere tutto”. (…) Naufragio o salvezza, allora, quando si parla dell’amore? In fondo, entrambe le cose. Visto che l’andare a fondo nell’abisso del vuoto è possibile anche se si resta da soli. E che l’amore, a patto che la fusione sia momentanea e la dipendenza non sia assoluta, ha il potere di farci approdare sulla riva della condivisione. Perché se è vero che da soli si è sempre incompleti, è anche vero che non si può mai chiedere all’altro di colmare il nostro vuoto. Il vuoto — quel segno tangibile della nostra vulnerabilità e dei nostri limiti, quella la traccia del bisogno che ci portiamo dentro e che ci spinge ad incontrare gli altri, ad avere dei progetti, a fare di tutto per realizzarli — lo si può solo attraversare. E il modo migliore per farlo, vincolati a un desiderio che è sempre desiderio di altro rispetto a ciò che una persona ci può dare, è proprio “con” l’altro. “Io amo con te”, allora. Scoprendo così che è soltanto “con” l’altro che il naufragare può essere dolce.