mercoledì 8 luglio 2015

Repubblica 8.7.15
Chi ha tradito i fondatori dell’Europa
di Nadia Urbinati


IL REFERENDUM greco ha accesso i riflettori sulla scena più contradditoria e convulsa che si trova a vivere l’Europa da quando ha intrapreso la strada dell’integrazione. Il destino di questo progetto di pace per mezzo della cooperazione è più che mai sospeso tra volontà e intenzioni contrapposte. Alla lucidità dei suoi visionari e fondatori fa seguito oggi una grande opacità, e soprattutto la rinascita prepotente degli interessi nazionali, pronti a usare l’Europa come arma per offendere e umiliare oppure come alibi dietro il quale nascodere la mancanza di volontà decisionale. La visione di un’Unione europea è nata tra le due guerre per sconfiggere i nazionalismi e i nazionalisti. Le direttrici originarie di questa utopia pragmatica furono in sostanza due: quella che faceva perno sulla volontà politica costituente e quella che faceva perno sulla formazione dell’abitudine alla cooperazione mediante regole e accordi economici. La prima era impersonata da Altiero Spinelli e faceva diretto ed esplicito appello alla volontà degli Stati di darsi un ordine politico federale, un progetto da prepararsi con il lavoro politico e delle idee (come fece il movimento federalista europeo). La seconda era rappresentata da Jean Monnet. Quest’ultima divenne il paradigma ispiratore dell’Unione europea, il cui primo nucleo fu nel 1950 la creazione di un’alta autorità sulla produzione franco-tedesca dell’acciaio e del carbone. Quel trattato sarebbe stato il primo di una serie numerosa di trattati sottoscritti dai governi in tutti i settori di interesse comune. La federazione europea sarebbe cresciuta quindi per accumulazione, senza un fiat fondatore, ma come politica di auto-imbrigliamento degli Stati che avrebbe col tempo costituzionalizzato le pratiche sovrannazionali.
Le radici di questa via non-politica all’integrazione europea stanno nel Settecento, nella filosofia della mano invisibile e della funzione civilizzatrice del commercio. L’assunto kantiano era che gli individui tendono a muoversi, a interagire e a comunicare per ragioni loro proprie con la conseguenza di mettere in moto un processo indiretto di relazioni pubbliche e di diritti che col tempo avrebbero consolidato la convivenza pacifica per generale convenienza. In prospettiva, l’integrazione avrebbe potuto mettere capo a una più perfetta unione, senza che nessuno l’avesse esplicitamente voluta. Questa fu la filosofia che ha sostenuto il progetto europeo mediante decisioni di secondo ordine, indotte dalla convenienza a cooperare.
Questo paradigma è stato una strategia di successo nella fase espansiva della ricostruzione post- bellica, proprio per la sua capacità di contenere le potenzialità conflittualistiche della politica e dare spazio alla pratica degli accordi e dei trattati. Ma in questo tempo di crisi economica, tale metodo ha perso mordente. La sfida di fronte alla quale si trova oggi l’Europa richiederebbe una determinazione politica nello spirito di Spinelli. Come ha sostenuto il costituzionalista Dieter Grimm, la rete di diritti e costruzioni giuridiche ha bisogno di ancorarsi a una «espressione di autodeterminazione del popolo sovrano europeo» per riuscire a far valere appieno la sua autorità su tutti e in tutti gli Stati.
Affidarsi alle pratiche generate dall’uso di regole condivise, all’abitudine di vivere da europei come se le cose vadano avanti per forza propria: tutto questo regge e funziona fino a quando le cose procedono facilmente e non è necessario scomodare un supplemento di volontà per prendere decisioni ostiche, benché necessarie. Il paradigma dell’eterogenesi dei fini su cui si è modellata l’Unione europea è figlio dell’utopia settecentesca del doux commerce , della forza civilizzatrice del commercio a condizone che sia la mano invisibile del mercato a muovere le decisioni, non la volontà politica. Il problema è che, mentre questa strategia ha avuto il merito di stabilizzare relazioni pacifiche essa non è in grado ora di guidare l’Unione europea verso una integrazione politica democratica, della quale invece vi sarebbe bisogno. La routine riproduce pratiche ma non sa creare scenari nuovi. Ecco perché oggi la lotta che si combatte in Europa è tra il partito della mano invisibile e il partito della volontà politica federale.
Non si giungerà mai ad una più perfetta unione se il demos europeo non sarà interpellato, se la volontà politica non acquisterà la sua autorità fondatrice, condizione senza la quale altri, dopo la Grecia, potrebbero pensare di usare lo strumento dell’appello al popolo nazionale per reagire contro decisioni che non sono prese nel nome di un popolo europeo. Il “no” referendario alle condizioni sul debito imposte alla Grecia ha messo in luce che solo all’interno di un’Unione politica compiuta il caso greco potrebbe non essere solo e soltanto una questione di rapporto privato fra debitori e creditori. Solo in un’Unione politica la questione greca potrebbe essere a tutti gli effetti una questione europea, e la sua soluzione una straordinaria opportunità di crescita continentale. Per comprendere questo, la logica della mano invisibile non serve, e anzi è di ostacolo perché mentre rifiuta di dare la scena alla politica rafforza la pratica delle trattative intergovernamentali e quindi rafforza sempre di più gli interessi nazionali. Crea le condizioni per il declino dell’Unione europea.
In Come ho tentato di diventare saggio , raccontando come prese corpo l’idea federalista ed europeista, Altiero Spinelli così dipinse l’Europa degli anni ’30: «Tutti questi Stati d’Europa obbedivano sopra ogni altra cosa alla legge della conservazione e dell’affermazione della propria sovranità. Fossero essi democratici o totalitari, erano sempre più nazionalisti... La federazione europea non ci si presentava come una ideologia, non si proponeva di colorare in questo o in quel modo un potere esistente... Era la negazione del nazionalismo che tornava a imperversare».