Repubblica 8.7.15
Il pressing di Obama al telefono con i leader “Atene resti nell’euro”
Il presidente americano: “La Grexit non è un’opzione”
Gli Usa irritati per l’incapacità di risolvere l’emergenza
di Federico Rampini
«LA GRECIA deve rimanere nell’euro, Grexit non è un’opzione». È tassativo Barack Obama. In poche ore telefona ai principali protagonisti della crisi europea: Merkel, Tsipras, Hollande. Il presidente americano è costretto a occuparsi di nuovo dell’emergenza greca: come nel 2010, come ne1 2011, come nel 2012... E fa fatica a credere che i leader europei possano essere ancora paralizzati su un dossier che si trascina da cinque anni. Bisogna mettersi dal suo punto di vista. Sul finire del 2008, nel corso del tempestoso passaggio delle consegne Bush-Obama, le due Amministrazioni entrante e uscente, pur odiandosi cordialmente, concordarono in poche settimane un piano da 900 miliardi di dollari per il salvataggio delle banche; cui ne seguì un secondo, quando Obama entrò alla Casa Bianca, per salvare General Motors e Chrysler.
Questi bail-out — operazioni di perdono dei debiti e aiuti di Stato simili a quelle di cui si parla per la Grecia — costarono lì per lì più di trenta volte le cifre che oggi sono in ballo per Atene. In un certo senso si trattò di salvataggi geograficamente mirati, come per la Grecia: le banche Usa in pericolo erano quasi tutte a New York; l’industria dell’auto è nello Stato del Michigan. A nessuno venne in mente di chiedere l’espulsione del Michigan dagli Stati Uniti. E comunque la maxi-operazione fu decisa, realizzata e infine chiusa con beneficio del contribuente (e perfino qualche profitto) in un tempo che è una micro-frazione di quello impiegato dall’eurozona per... non decidere nulla.
Incomprensibile, per il pragmatismo americano, è la fissazione moralistica contro chi fallisce per debiti. Uno degli atti fondativi del capitalismo moderno fu l’abolizione della prigione per debiti: tra gli ultimi a patirne Daniel Defoe, l’autore di Robinson Crusoe , in carcere per uno scoperto di 17mila sterline nel 1692. Estrarre al proprio debitore la carne viva dal corpo, co- me avrebbe voluto fare Shylock nel Mercante di Venezia di Shakespeare, può dare una soddisfazione vendicativa, ma non aiuta il debitore a ripartire su nuove basi, creare ricchezza, restituire almeno parte di quel che ha preso in prestito. Prove di questo atteggiamento laico e pragmatico verso i debitori, l’America ne diede anche quando a governarla erano repubblicani neoliberisti come Ronald Reagan e George Bush padre: tra la seconda metà degli anni Ottanta e il 1994 il Piano Brady cancellò un terzo dei debiti a 18 paesi dell’America latina inclusi i più grossi come il Brasile. È molto più di quanto Tsipras abbia mai osato sperare dall’Europa.
La preoccupazione di Obama oggi è strategica. Non vuole la Grexit perché teme che una Grecia alla deriva finisca nelle mani della Russia, o della Cina, o di entrambe. Fu Churchill alla fine della seconda guerra mondiale a spiegare a Roosevelt l’importanza geopolitica della piccola Grecia, quando vi divampava la guerra partigiana guidata dai comunisti, e intorno c’erano la Jugoslavia di Tito, la Bulgaria e la Romania occupate da Stalin. Da allora gli americani non hanno mai sottovalutato «quegli scogli sul Mar Egeo». Tanto meno possono farlo oggi, mentre vacilla un altro perno dell’alleanza atlantica in quella zona, la Turchia.
Sul piano strettamente economico, invece, non si respira negli Stati Uniti un’aria di vera emergenza. Secondo l’ultimo sondaggio tra i grossi investitori, fatto a Wall Street dalla Barclays, più del 50% considera che perfino lo scenario peggiore — l’uscita di Atene dall’euro — provocherebbe solo un “blip” sui mercati globali, una modesta perturbazione. (Avvertenza per l’uso di questi sondaggi: le crisi più dirompenti non sono mai state previste in anticipo; gli eventi definiti “cigni neri” hanno sempre squarciato come lampi un cielo blu di ottimismo).
Per quanto Obama stia spendendo tutta la sua influenza per indurre gli europei a trovare una soluzione, è lui stesso alle prese con due dilemmi. Anzitutto, questo presidente era partito con un capitale di simpatia verso Tsipras, che ha rapidamente esaurito. Quando il premier greco mandò questa primavera Varoufakis a Washington per l’assemblea annua del Fondo monetario, gli uomini di Obama ebbero una pessima impressione sull’allora ministro dell’Economia: un narciso incompetente. Sulla stampa Usa, da quella conservatrice come il Wall Street Journal fino al liberal New York Times, si sono moltiplicate le inchieste sulla massiccia evasione fiscale in Grecia, le truffe allo Stato, il parassitismo dei pubblici dipendenti. Alla lunga questo ha finito per creare un po’ di comprensione verso la Merkel. A difendere a spada tratta i greci rimane compatta solo l’intellighenzia neo-keynesiana: i premi Nobel Paul Krugman e Joseph Stiglitz, Robert Reich, Jeffrey Sachs.
L’altro dilemma per Obama è legato all’Fmi, di cui gli Stati Uniti sono l’azionista di maggioranza relativa. In seno al Fmi cresce l’irritazione delle nazioni emergenti: queste denunciano un trattamento di favore verso un «membro del club occidentale dei ricchi» (la Grecia risulta tale, se paragonata all’emisfero Sud). L’America deve evitare di trovarsi accerchiata da quel fronte dove la Cina conquista consensi. Infine il Fondo monetario è portatore di una verità scomoda per tutti. Il suo capo economista Olivier Blanchard è stato categorico: «L’austerity ha fallito». Una condanna inequivocabile verso l’ideologia tedesca. Ma lo stesso Fmi è portatore di una ricetta in due tempi, che ha quasi sempre applicato nelle bancarotte sovrane: prima la cancellazione di una parte sostanziosa del debito, poi una massiccia svalutazione. Nel caso di Atene questo significherebbe solo l’uscita dall’euro. La seconda metà della cura, è proprio quella che Obama sta cercando di impedire.
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Il capo economista dell’Fmi: “L’austerity ha fallito” Washington ritiene opportuno un taglio del debito Per Wall Street l’uscita dall’euro provocherebbe sui mercati globali solo una modesta perturbazione Il timore della Casa Bianca è che il Paese possa scivolare nella sfera d’influenza della Russia e della Cina
IL LEADER Barack Obama nelle ultime settimane è stato molto attivo, agendo dietro le quinte dei negoziati sulla Grecia cercando di esercitare un pressing a tutto campo per evitare che le trattative falliscano