Repubblica 8.7.15
L’UNIONE MANCATA
MASSIMO L. SALVADORI
ALTIERO Spinelli viene onorato come un grande padre dell’Unione Europea. Sennonché è rimasto un padre senza figli. Il suo progetto di Stati Uniti d’Europa, delineato nel 1941 a Ventotene, appare come un’utopia, che non ha avuto luogo e non si sa se e quando possa trovarlo. A leggerlo oggi suscita commozione e ironia. Vi si dice che la nazione è obsoleta, che avendo gli Stati nazionali seminato disastri all’ordine del giorno occorre porre la Federazione europea, che l’anima di questa dovrà essere l’emancipazione delle classi lavoratrici. Il Manifesto di Ventotene si chiudeva in modo battagliero: «La via da percorrere non è facile, né sicura. Ma deve essere percorsa, e lo sarà!». Sembra di trovarsi di fronte al sogno di un visionario. Abbiamo infatti una Unione nominale ma non reale, fortemente incompiuta, difettosa, traballante.
La drammatica crisi greca, che è la crisi di un Paese entro quella dell’intera Unione, non rappresenta se non l’ultimo capitolo di uno storico insuccesso. La clamorosa vittoria dei “no” al referendum di Atene ne è, al di là di ogni altra cosa, lo specchio nero. La federazione si colloca in un orizzonte senza tempo. Si profilano sintomi di disgregazione a partire dalla possibilità concreta che la Gran Bretagna — tradizionale palla al piede di ogni avanzamento verso l’unificazione politica — abbandoni l’Unione; avendo a corona una proliferazione di movimenti ostili al progetto europeistico.
Chi semina vento raccoglie tempesta. E a farlo è stata l’Unione stessa. È sotto i nostri occhi come le tendenze variamente antieuropeistiche siano state e siano alimentate dai limiti organici della sua costruzione. La Comunità economica europea da un lato era stata un successo, ma dall’altro aveva segnato il passo in relazione all’unificazione politica. Era stata posta sotto il segno di un debole e incompiuto confederalismo, sviluppatasi all’ombra della divisione del continente sanzionata dalla guerra fredda aveva lasciato il potere sostanziale in politica interna ed estera nelle mani degli Stati nazionali, si era legittimata sostenendo di aver dato finalmente pace ai popoli che la componevano: ma era retorica, poiché le chiavi della pace e della guerra erano tenute da Usa e Urss. Sotto lo stimolo della dissoluzione dell’impero sovietico, della riunificazione tedesca e con la prospettiva di un allargamento ormai alla portata, l’Unione Europea con il trattato di Maastricht del 1992 si pose il compito di marciare verso «un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini», di avviare dunque il processo per il passaggio alla federazione politica.
Ebbene, oggi possiamo misurare che le promesse e le speranze non sono state mantenute. Ecco le promesse non mantenute: l’Unione è stata incapace di darsi una costituzione; ha un Parlamento che lascia le decisioni che contano ai capi di Stato e di governo; le leve della politica estera restano prerogativa di Stati nazionali che talvolta si accordano e talvolta non si accordano affatto; è divisa tra Paesi che si sono dotati di una moneta unica e Paesi che ne sono rimasti fuori; ha una Banca centrale che però non ha alle spalle un governo politico comune; ha come valore la solidarietà ma ciascuno la concepisce come vuole; di fronte alla tragedia delle nuove ondate di immigrazione sta perdendo la testa suscitando tensioni che non sa come comporre. Il dramma della Grecia — esaltato dai penosi contrasti di capi di governo, tecnocrati ed economisti che propongono gli uni certe ricette e gli altri ricette opposte — mette a nudo i difetti profondi di un’Unione che divide.
In questo contesto giganteggiano i forti squilibri di potere politico ed economico tra i singoli membri dell’Unione. Essa è andata estendendosi fino a 28: un’estensione quantitativa difficile da governare in assenza di un governo federale in grado di stabilire quell’autorità centrale che costituisce il motore di qualsiasi effettiva Unione di Stati. È quindi inevitabile che all’interno di un tale precario assemblamento si stabiliscano ineguali rapporti di forza che giocano a favore anzitutto dello Stato istituzionalmente più solido, economicamente meglio at-trezzato, dotato di una leadership ampiamente condivisa da parte del suo popolo.
È qui che si apre la questione della Germania unificata, che ha stabilito la propria egemonia, come mostrato da ultimo dalla vicenda greca. La Germania galleggia nel mare dell’Unione come una grande isola, generando una pericolosa contraddizione: un’Unione nata per compattare le sue componenti va scollandosi anche perché i tedeschi si trovano ad esercitare un superpotere che provoca resistenze e avversioni. Romano Prodi ha invocato, come unico e urgente rimedio al fallimento, lo stabilirsi di un’autentica «autorità federale». È il grido di Spinelli che ritorna. Vero: l’Europa ha assolutamente bisogno di una simile autorità, ma tutto attualmente milita contro di essa. Siamo nel pieno di una crisi di sistema, di fronte alla quale vale l’eterna lezione di tutte le grandi crisi: o si mobilitano le maggiori energie o si assiste allo sfibrarsi dell’intero tessuto arrivando allo scacco. Hic Rhodus, hic salta.