Repubblica 8.7.15
Senza padri non si fa la rivoluzione
Il nuovo si costruisce con i mattoni della storia.Per ogni innovazione risulta decisivo il rapporto con il “tempo di ieri”:compiere quello che la tradizione esige
di Massimo Cacciari
Anticipiamo un saggio da Re Lear di Massimo Cacciari (Edizioni Saletta dell’Uva pagg. 80, euro 10)
Rammentare un’altra volta come nel termine “rivoluzione”, analogamente che in quelli di “rinascita” o di “riforma”, suoni l’idea della restauratio magna di un passato, che si immagina poter costituire la solida terra su cui procedere ancora, non sembra ormai che un vano esercizio filologico. La novitas, il desiderio di res novae e verba nova, al di là di ogni “ripetizione”, pervade infatti tutta la nostra cultura. Infuturarsi: ecco l’imperativo!
Pueri aeterni tutti anelano ad essere. “Rivoluzione” suona ormai da tempo soltanto come sinonimo di innovazione. Eppure, le cose non stanno così semplicemente. La paura si mescola al desiderio. La ricerca e il dubbio intorno al fondamento del “nuovo” si fanno sempre più assillanti, proprio in rapporto alla irresistibile affermazione della sua idea.
Allorché il “nuovo” deve “giustificarsi” non può che “ri-convertirsi” a qualche passato, se non altro per spiegare da che cosa intende “secedere”. I plebei romani, nelle loro secessiones , sapevano bene chi fossero i “padri” (i patrizi). Quale figlio, oggi, smanioso di “innovare”, conosce i propri padri? Quale pretendente parricida partecipa, oggi, così intimamente come Bruto alla vita del suo Cesare? Ma il padre sopravvive sempre se non lo uccidi in te… Nessuno aveva “interiorizzato” storia e ragioni del suo nemico meglio di un Marx o di un Lenin. Il semplice rottamatore finisce invariabilmente sepolto sotto le macerie che la storia, o la fortuna, per conto suo produce. Chi “rottama” e basta ( rex destruens ) non fa politica, ma si limita a anticipare l’opera del
tempus edax . Perciò gli autentici rivoluzionari hanno spesso cercato di far maturare il nuovo regime dall’interno delle forme politiche tradizionali, corrodendole e scavandole dalle viscere. La loro arte è stata in qualche modo maieutica. Il “nuovo” appare, allora, come il trapassare del vecchio, non l’affermazione di una prepotente violenza, ma il prodotto dello stesso passato. Il “nuovo” si “giustifica” quasi come il suo custode, come la nuova dimora in cui le forme dei padri possono finalmente avere soddisfazione e trovare pace. Così i novatores “riformisti” cercano di superare la paura che inevitabilmente suscitano presentandosi come coloro che parlano e operano sulla base dell’autentico senso del passato. Compiere ciò che la tradizione esige, e che la sua “lettura” conservatrice-letterale impediva di comprendere, è proprio dei grandi innovatori. Si possono dare varianti “messianiche” di questa posizione: allora il rivoluzionario non è soltanto chi segna il “trapasso” d’epoca, ma colui che intende riscattare- redimere vittime e ingiustizie della storia o pre-istoria trascorsa. Egli si sente responsabile nei loro confronti; esse sono per lui presenze vive che è necessario conoscere, ascoltare e “salvare”.
In tutti i casi, risulta decisivo, imprescindibile il rapporto col “tempo di ieri”. Dove questa relazione non sia più riconosciuta come essenziale, “rivoluzione” finirà con l’indicare il “naturale” salto tecnologico-organizzativo all’interno dell’ininterrotto progredire del sempre- uguale. Rivoluzione diviene progresso. E le due idee tramontano insieme. Naturalmente, il quadro è del tutto diverso se riteniamo che le forme politiche si succedano secondo un ritmo regolare, che le res novae non siano che metamorfosi di “archetipi” necessari e eterni, oppure, all’opposto, che l’occasione dia davvero la possibilità alla virtù di inventare situazioni e ordini mai prima sperimentati. La cultura moderna sembra insistere su quest’ultima prospettiva. Tuttavia, Machiavelli docet: gli innovatori, i fondatori di “principati nuovi” debbono conoscere bene gli antichi
exempla , debbono ben sapere che gli uomini camminano “quasi sempre per le vie battute da altri”, che “tutte le cose che sono state” possono essere di nuovo. Non si dà mai una pura inventio novitatis . Il nuovo si costruisce con i mattoni della storia — ma trasformandoli e costringendoli in forme mai prima realizzate. (...) Ma ogni concepibile innovazione presuppone un “ritorno”. Qualsiasi “salto” è possibile soltanto se un’energia che attingiamo in noi stessi lo fa apparire necessario. Senza una “voce” che costringe a sciogliere le cime e avventurarsi in mare aperto, mai potremmo vincere la paura del “nuovo”. La consuetudo ci terrebbe legati alla conservazione del presente. Qui l’idea moderna di rivoluzione manifesta la sua origine teologica. Rivoluzione per eccellenza è la
conversio , il ritorno a sé, nell’intimo della propria anima, il faccia a faccia col proprio vero volto, fino a provarne con angoscia tutta la finitezza e la povertà. (...) Quando Paolo in 2 Cor. 5,12 afferma che «tutto è diventato nuovo» intende per l’appunto la novitas della metanoia , la rivoluzione interiore che il cristianesimo ha prodotto, in quanto segno augurale di un intero nuovo Evo, di un nuovo
Aiòn . La secolarizzazione di tale idea comporta l’abbandono o l’oblio del fatto che conversio era concepibile solo gratia , che mai l’uomo da sé avrebbe potuto raggiungere la forza necessaria per mutarsi così radicalmente e offrire un tale mutamento a exemplum per il mondo. La rivoluzione, il desiderio di res no- vae , hanno spezzato l’“ordine” che le collegava a conversio . Sono diventate un affare esclusivo della volontà, della mente, della prassi. D’altra parte, questa “deriva” si annuncia già con la differenza tra la narrazione della conversione per antonomasia, quella di Paolo, e la “confessione” della propria da parte di Agostino. Un raptus per Paolo; il Signore non si “insinua” nell’anima, ma vi irrompe all’improvviso, la sconvolge insieme al corpo con inaudita violenza. In Agostino, invece, la
conversio avanza lentamente, tra esitazioni, dubbi, sospensioni, attraverso i numerosi incontri e confronti con gli amici. (...) L’innovatore di oggi non prova alcun bisogno di conversione; egli, anzi, è l’innocente, che si erge a modello dell’“ordine nuovo”, figura futuri . Così l’agostiniano abisso del Sé si è forse richiuso per sempre sotto la folle idea di un’indefinita, permanente rivoluzione.