martedì 7 luglio 2015

Repubblica 7.7.15
Julia Kristeva racconta in chiave psicopatologica l’autore francese più controverso. Campione di una “letteratura dell’orrore” che mette a nudo l’inconscio
Ecco perché odio e amo l’enigma Céline
di Julia Kristeva


LOUIS Ferdinand Destouches, detto Céline (1894-1961), non cessa di suscitare emozioni e indignazioni. La prova: la continua riproposta delle sue opere. Alcuni plaudono al coraggio degli editori, e necessariamente a quello dello scrittore che scava con il bisturi del medico in fondo agli esseri umani, che il genio di questo viaggiatore al termine della notte chiamava «opera del diluvio ». Altri bacchettano questo incensamento di cui non dovrebbe essere onorato l’autore antisemita di “Bagatelle per un massacro”. Molti di voi ne hanno sentito parlare. Pochi l’hanno letto, lo so, non dite il contrario. Se mi arrischio a parlarne, è in primo luogo perché quegli scritti non sono solo let-teratura: toccando tutte le corde della lingua, Céline mette a nudo l’inconscio fino all’insostenibile, e fa ridere l’essere parlante della sua stessa
bestialità. D’altro lato, e al tempo stesso, la sua angoscia distrugge quella barriera di sicurezza chiamata sublimazione e si compiace in un’eccitazione mortifera alla quale la storia europea offre una via discarico: l’antisemitismo. Céline attraversa la vita e la morte in un’esperienza che lo spoglia della sua identità e lo conduce all’apice della sua eccitabilità e delle sue angosce. Una esperienza come quella che crea mistici e che i filosofi (da Hegel a Heidegger) cercano di delucidare a posteriori? Con una differenza, e si tratta di una differenza radicale: che Céline pratica la sua esperienza e ce la consegna nella lingua più curata che ci sia: il francese «regale», dice. Fino a farlo vibrare in danza e in musica, e portarlo ai limiti del senso, ebbro del solo piacere dell’esattezza della parola e del ritmo, per piangere d’orrore e di risa.
Quale altro approccio, diverso dalla psicoanalisi, potrebbe arrischiarsi su questa cresta, dove la pulsione e le parole camminano di pari passo e si scontrano per inabissarsi e sublimarsi mentre “io” crollo o mi esalto in un’apocalisse senza Dio? Oltretutto, è la tragedia della Shoah? È la logica implacabile dell’Homo religiosus che, di sporcizia in sozzura, di tabù levitici in peccato e codici morali, affina le sue logiche e i suoi riti di purificazione fianco a fianco alle sue passioni, ma molto spesso vi soccombe? Il viaggio di Céline al termine della notte si è trovato un capro espiatorio, un polo di fascinazione e di odio, nella figura immaginaria dell’ebreo. Quale arte diversa dalla psicoanalisi può accettare la scommessa di fare luce su questa compromissione antisemita?
Dopo avere letto tutto Céline e quasi tutto su di lui, senza dimenticare scrittori degni di stima che si sono compromessi con il suo antisemitismo, avevo difficoltà a pensare insieme Céline scrittore e Céline ideologo. Avevo acquisito la certezza che non ci fossero due Céline: da un lato quello del «francese lingua regale»; dall’altro l’assassino innamorato di Yubelblat, del «fondo della sua sostanza di immondizia ». Alcuni preferendo dimenticare la politica per cullarsi in gioie estetiche, altri esecrando l’autore di pamphlet al punto da censurare lo scrittore. Nella mia lettura i due Céline stanno insieme, in una stessa dinamica psichica che può assumere sfaccettature diverse: slanci di tenerezza, squarci di luce, come salve di deiezione, di pus e di sangue, di chiamata all’omicidio.
È a questo punto che, in un periodo drammatico della mia vita personale, e dopo avere letto Céline a tarda notte, mi sono svegliata con la parola “abiezione”. E la convinzione che questa parola riassuma l’enigma Céline. Non vi sto dicendo che la mia lettura costituisca una spiegazione esaustiva del suo stile, e ancor meno dell’orrore antisemita nel quale si è compromesso col sogghigno. Dico solo che questa dinamica psichica, che io chiamo una abiezione, si aggiunge alle ragioni religiose, politiche, sociali, storiche che, da oltre due millenni, hanno fatto dell’ebreo il nemico d’elezione in Europa. E ancora oggi il nemico d’elezione del mondo musulmano, benché in modo sociopolitico diverso, ma attingendo alla stessa riserva psichica.
Molte altre cose sono state dette dai sociologi e dai politologi sulle cause della tragedia antisemita che ha portato all’Olocausto. Resta ancor più da dire delle motivazioni religiose interne ai tre monoteismi che attizzano quella violenza fratricida. L’analista, come sempre a partire da un discorso individuale ( qui: Céline), può aggiungervi solo un chiarimento complementare: un carotaggio diretto a quel luogo psichico, peraltro temibile e tuttavia straordinario, dove l’essere parlante al tempo stesso perde e costruisce la propria identità. Né soggetto né oggetto, un aggetto/ abietto. Né te né me, tutti abietti, ma tu più di chiunque altro. Chi, tu? Tu-mio altro: mio Me abietto che io proietto in Te confuso con la mia abiezione, la nostra-la tua. Così intesa, l’abiezione ha una lunga vita davanti a sé: abitando le pieghe tra linguaggio e pulsione, là dove le identità vacillano, essa può tanto ordinare la creazione immaginaria quanto fomentare tutti quei confronti con l’altro dove dominano il potere dell’orrore, l’attrazione e il disgusto, l’antisemitismo e il razzismo che perdurano e che verranno. Quali rapporti dunque tra l’abiezione e il racconto di Céline?
«In principio era l’emozione... », ripete spesso, nei suoi scritti e nei suoi colloqui. A leggerlo, si ha l’impressione che in principio fosse il malessere. Il dolore come luogo del soggetto. Limite incandescente, insopportabile tra dentro e fuori, me e altro. L’essere come mal-essere. Il racconto céliniano è un racconto del dolore e dell’orrore non solo perché i “temi” ci sono, tali e quali, ma perché tutta la posizione narrativa sembra ordinata dalla necessità di attraversare l’abiezione della quale il dolore è l’aspetto intimo, e l’orrore il volto pubblico. Poiché quando l’identità narrata è insostenibile, quando la frontiera soggetto/oggetto è lacerata e anche il limite tra dentro e fuori diventa incerto, il racconto è il primo a essere interpellato. Se esso prosegue nonostante tutto, cambia fattura: la linearità si spezza, procede a scatti, per enigmi, scorciatoie, lacune, grovigli, rotture. A uno stadio ulteriore, l’identità insostenibile del narratore e dell’ambiente che si pensa lo sostenga non si narra più, ma si grida o si descrive con un’intensità stilistica massimale (linguaggio della violenza, dell’oscenità, o di una retorica che apparenta il testo alla poesia). Il racconto cede davanti a un tema-grido che, quando tende a coincidere con gli stati incandescenti di una soggettività-limite che abbiamo chiamato abiezione, è il tema- grido del dolore-dell’orrore.
In altre parole, il tema del dolore dell’orrore è la testimonianza ultima degli stati di abiezione all’interno di una rappresentazione narrativa. Volendosi spingere oltre intorno all’abiezione, non si troverebbero né racconto né tema, ma il rimaneggiamento della sintassi e del lessico: violenza della poesia, e silenzio. In tal senso c’è già tutto nel Viaggio al termine della notte : il dolore, l’orrore, la morte, il sarcasmo, l’abiezione, la paura. E quel baratro dove parla uno strano strappo tra un me e un altro: tra niente e tutto. Due estremi che cambiano peraltro posto, Bardamu e Arthur, e attribuiscono un corpo dolente a quella sintassi interminabile, quel viaggio senza fine: un racconto tra apocalisse e carnevale.
(Traduzione di Anna Maria Brogi)