Repubblica 15.7.15
Quel che non si capisce delle donne di oggi
Natalia Aspesi ripubblica quarant’anni dopo un suo libro sulla condizione femminile.È il ritratto di una generazione e delle lotte per l’emancipazione
di Stefano Bartezzaghi
«Avventure in treno non ne capitano più: da alcova per sguardi e gesti ardenti e sbatacchiati, gli scompartimenti, con il loro funebre odore di tempo vuoto, sono diventati dei confessionali dove l’ostilità quasi sanguinaria degli estranei si rompe nel bisogno improvviso di impalare qualcuno con il livore, lo scoramento, le delusioni e le ingiustizie della propria vita».Questo è l’incipit, bizzarro e letterario, del libro “Delle donne non si sa niente” di Natalia Aspesi.
Vale la pena trascriverlo per misurare quanto sia familiare l’altrove da cui ci proviene il libro ripubblicato ora dal Saggiatore. Nel 2015 il libro ha più o meno l’età che aveva l’autrice quando l’ha scritto: lo dice lei stessa, nella prima riga della prefazione che ha aggiunto a questa nuova edizione. In quel treno che attraversa la Lombardia nel 1973 c’è un «roseo giovanotto disperato» che non trova una candidata a moglie e lo confida ai compagni di scompartimento, almeno ad alcuni. Infatti non si rivolge mai all’unica che lo ascolti davvero: «È ovvio che con i pantaloni, la sigaretta e un libro in mano rappresento la donna malvagia, la controdonna». Le ragazze incontrate dal giovanotto di quarant’anni fa e oltre «portano i pantaloni, fumano, sono saccenti..., tutte truccate e matte per il ballo». Lui ne cerca invece una che non legga stupidaggini, che sia contenta dei lavori domestici e non abbia strane idee per la testa. La sua conclusione ha ispirato il titolo della nuova edizione di questo libro: Delle donne non ci si capisce più niente.
Parrebbe dunque un libro di due ere fa: scritto all’inizio di un flusso e ora ripubblicato al termine, si spera, di un riflusso, per lo scopo reso esplicito dall’autrice nella prefazione 2015: «Alle ragazze d’oggi forse non farebbe male sapere la loro storia». Oggi, dopo le conquiste delle loro madri e nonne, nessuno chiamerebbe saccenteria la manifestazione di proprie opinioni autonome, o biasimerebbe il loro make-up. Sui pantaloni anziché gonna (o minigonna), in realtà, qualche cantautore ha nel frattempo gorgheggiato il proprio parere sfavorevole e il fumo è un interdetto generale. Ma non si può negare che oggi ci siano ministre, direttrici, e altre donne in posizioni apicali: «Il tetto di vetro si è sbrecciato», dice Aspesi, forse con una reminiscenza della vitrea campana che ha finito per soffocare la poetessa Silvia Plath. L’unica posizione professionale davvero non disponibile è rimasta quella del prete. «Ma pazienza», conclude l’autrice, con la saggezza che pressoché unanimemente le si riconosce.
Il libro, allora intitolato La donna immobile ( Fratelli Fabbri editori, 1973), usciva davvero in un momento di passaggio: quando, cioè, sullo sfondo dei movimenti di protesta stava emergendo con nitore la questione femminile, monumentale residuo borghese che attraversava i movimenti stessi. Una contraddizione su cui Lotta Continua, tre anni dopo l’uscita di questo libro, si sarebbe sciolta. Il fatto era che solo la voce delle donne, e solo di alcune di loro, esplicitava come nessuno dei sommovimenti politici, utopistici o anche di semplice costume che la contestazione diceva di auspicare toccava il fondamento della spartizione dei ruoli tra uomini e donne: fondamento che era poi l’allora incontestato carattere naturale e biologico della “femminilità”. E qui il libro della giovane Aspesi pare molto meno inattuale, visto che oggi sull’asse Hello Kitty / Playstation quella stessa spartizione si ripresenta, a volte con la pretesa aggiuntiva di avere basi biologiche, anzi neuronali. «Nulla è mai conquistato per sempre», ammonisce la Aspesi di oggi, concludendo la nuova prefazione.
È un libro che spesso, per divertita ammirazione, fa sorridere. Ma non è un libro scritto con il sorriso. Ammiratrici e ammiratori della Aspesi soave e insieme acuminata che scrive di cinema, costume e questioni di cuore, noteranno in queste pagine ripescate una molto minore soavità e invece una notevole dose di impazienza, tale da portare l’autrice alle soglie dell’invettiva. La soavità in realtà c’è, ma non è esibita bensì acquattata nella padronanza dello stile. Si sente che Aspesi si rivolge a un pubblico più colto di quello attuale, il pubblico che sul Giorno oltre alla firma di lei incontrava quelle di Gadda e Arbasino. Nell’implacabile avanzare dei capitoli — in cui restano travolti la femminilità e i miti della bellezza femminile, della giovinezza, dell’amore, del sesso, del matrimonio e della maternità (tutti smascherati nella loro enfasi) — la scrittura riprende e ribalta i moduli di quei manuali che avevano finito da poco di codificare il comportamento standard della donna borghese. Oltre a quelli di Irene Brin si può citare La vera signora di Elena Canino ( Longanesi, 1953; libro molto arguto, peraltro). L’indipendenza femminile era vista dalla generazione precedente come sapienza machiavellica nello svincolarsi dalla rigidità della norma sociale, per governarla senza apparire di farlo. Per la Aspesi del 1973 si trattava invece di cambiare francamente la norma, denunciandone innanzitutto il carattere appunto sociale e storico, dato falsamente e ideologicamente per naturale. Però non procede per vie teoriche: usa gli stessi ritratti, gli stessi esempi fittizi e realistici di chi l’ha preceduta. Ma i quadretti della vita della donna — casalinga, moglie, lavoratrice, madre, amante, single, giovane, anziana — con lei perdono i tratti rotondi e armonizzanti della manualistica anteriore e diventano vignette spigolose, dove ad Aspesi basta un avverbio per bucare la piatta artificiosità della rappresentazione.
La Aspesi del 2015 ai margini del suo libro segnala pacatamente i limiti tuttora presenti dell’emancipazione femminile: le diverse condizioni professionali e i diversi trattamenti economici; i delitti contro l’indipendenza di una moglie, di una compagna, di una sorella, di una figlia; la non certo perfetta conciliazione fra libertà personale e vincoli famigliari e affettivi. E fuori dalla nostra società, ma neanche troppo, premono concezioni ancora schiavistiche e dominate della femminilità, considerata impura e inferiore. Ripubblicando queste pagine, Aspesi punta ancora una volta sui benefici della visione critica, informata e vigile. E probabilmente spera di avere tanti lettori quante lettrici: tutte e tutti hanno da guadagnarci.
IL LIBRO Natalia Aspesi, Delle donne non si sa niente, (Il Saggiatore, pagg. 210, euro 16)