domenica 12 luglio 2015

Repubblica 12.7.15
Guardando all’URSS
Quando l’Italia inseguiva il mito dell’arte del popolo
di Fabrizio D’Amico


A Palazzo Te di Mantova si mettono insieme il realismo del nostro dopoguerra con quello come Dejneka e Popkov dei maestri sovietici

MANTOVA Echi da mondi e da anni lontani s’ascoltano oggi alle Fruttiere di Palazzo Te di Mantova, dove è aperta la mostra Guardando all’Urss (a cura di Vanja Strukelj, Francesca Zanella e Ilaria Bignotti; fino al 4 ottobre; catalogo Skira): echi di un tempo, e di un modo di concepire l’arte, che la contemporaneità s’è lasciata da tempo alle spalle. Senza rimpianti; ed è probabilmente giusto: se almeno si ripensano le vane battaglie fra astratto e figurativo che divisero allora il campo della cultura, con Togliatti a dire — sull’argomento — scempiaggini, i parlamentari Dc a rispondergli con interrogazioni d’altrettanta insipienza, e Vittorini (postulando invano, al pari di quanto faceva in Francia Roger Garaudy, una “libertà” dei comunisti nell’espressione artistica) a soffrirne. Senza rimpianti, e va bene: purché si serbi, di quegli anni, una memoria consapevole.
Che è appunto quanto fa la mostra di Palazzo Te: che mette assieme il nostro realismo dell’immediato dopoguerra, e l’arte dei soviet. L’uno esemplato dalle opere della Galleria Civica di Suzzara; l’altra con dipinti e sculture provenienti per lo più dalla Galleria Tret’jakov di Mosca e da una importante collezione privata italiana, quella di Gaia Fusai, orientata appunto sulla pittura dell’Urss successiva alle avanguardie. Una raccolta, già in parte esposta a Berlino in occasione del ventennale della caduta del muro, nata appunto con l’intento di assicurare una vita — dice oggi la collezionista — dei dipinti del realismo sovietico, in patria «praticamente scomparsi da ogni luogo pubblico, fatta eccezione per i grandi musei», dove essi sono peraltro spesso confinati nei magazzini.
Dai capostipiti come Pietr Koncalovskij, o Isaac Brodskij e Sergei Gerasimov, che hanno entrambi nel 1934 esposto all’ultima edizione della Biennale di Venezia in cui — prima della guerra — la Russia allestì il proprio Padiglione ai Giardini, fino ai più giovani (Jurij Pimenov, Viktor Popkov, Augustovich Zarins, fra i molti altri), che marcarono con la loro presenza il ritorno dell’Urss in laguna nel 1956 (un ritorno giunto non a caso dopo l’avvio della destalinizzazione del Paese e la nuova politica d’apertura al mondo occidentale seguita al XX congresso del Pcus e intrapresa da Kru- scev), a Mantova scorrono immagini da noi pochissimo note, e fra loro diversissime. Toccate talvolta dalla cultura ancora post-impressionista di alcuni, o dall’eco del grande naturalismo russo dell’Ottocento, e più spesso intrise della retorica ufficiale con cui venivano effigiati i trionfi della Rivoluzione: nelle campagne felicemente laboriose, nelle fabbriche, nelle città ammodernate. Un mondo nuovo deve essere rappresentato; e diligentemente lo fanno, per lo più con un talento che — smarrite le radici della tradizione sapiente del secolo XIX, e tacitate le ragioni dell’avanguardia — sembra scemare col passare dei decenni. A legare il prima e il dopo guerra, e a dar continuità a questo mondo è l’arte più complessa di Aleksandr Dejneka (1899-1969), che partecipa con successo alle principali manifestazioni pubbliche, anche occidentali, fra le due guerre e parimenti dopo il disgelo avviato da Kruscev. La sua pittura fortemente sintetica è toccata prima da un sentimento malinconico, poi si fa vieppiù gioiosa e sognante. Ed è in mostra ampiamente documentata: così che si rinnovano i fasti, oggi, di chi fu, oltre mezzo secolo fa, insignito del titolo di “Artista del Popolo”.
Ad un popolo diverso si rivolgevano, negli stessi anni del dopoguerra, gli organizzatori del Premio Suzzara: e in testa agli altri il pubblicitario Dino Villani che, nato a un passo da Mantova ed affermatosi a Milano, in combutta col sindaco di Suzzara e con qualche amico, fra i quali Cesare Zavattini, diede alla cittadina della Bassa il suo Premio (era quella la “stagione dei premi”, che spuntavano un po’ ovunque nel nord d’Italia), intitolato al “lavoro e lavoratori nell’arte”: stringendo così in un solo abbraccio la vocazione del luogo e le parole d’ordine del partito di maggioranza di quella terra, il Pci, che propugnava — convintamente solidale ai dettami sovietici — il realismo come unica forma dell’espressione artistica. «Questo premio che i suzzaresi faranno prosperare tra le loro braccia generose è il più bel premio del mondo, concreto, allegro, pieno di speranza», scrive allora Zavattini. Aldo Borgonzoni, che ne vinse la prima edizione del 1948 con il dipinto Mondine , fu premiato con «30 kg di salumi assortiti», uno dei riconoscimenti che Suzzara riconosceva ai partecipanti. Riconoscimenti, alterni fra animali vivi o già insaccati, a difesa dei quali Villani — contrastando il dileggio che sul Premio riversava la stampa “borghese” — inventò il geniale slogan: “un vitello per un quadro, non abbassa il quadro: innalza il vitello”.
Quel quadro di Borgonzoni andrà a costituire, assieme ai molti altri che vi si aggiunsero nei trent’anni che durò il premio, le raccolte della Galleria Civica di Suzzara. Non prima, però, che le Mondine fossero esposte in una celebre mostra bolognese, dove s’attirarono la censura di Togliatti, che vi vide allineate le “cose mostruose” del nuovo realismo italiano, troppo toccate a suo giudizio dal neo-cubismo d’eredità picassiana che ne inficiava la chiarezza dell’eloquio. Non sappiamo quanto profondamente Togliatti conoscesse il nuovo realismo sovietico; ma certo gli dovette sembrare che il passo più europeo, più aperto alla presa d’atto della ricerca internazionale dei pittori comunisti italiani (da Guttuso a Pizzinato, da Borgonzoni a Turcato — tutti oggi in mostra a Mantova), fosse mille miglia lontano dai dettami del realismo sovietico. E in questo, almeno, aveva ragione.