La Stampa 14.7.15
L’Ue cambi se vuole un futuro
di Marta Dassù
Ha perso la Grecia, ma ha perso anche la Germania. E abbiamo perso, come Europa, credibilità e tempo: sei mesi buttati via in un tira e molla inconcludente fra debitori strafottenti e creditori supponenti. Mentre il prezzo del salvataggio aumentava. Per i greci e per gli europei.
Alexis Tsipras ha calcolato – sbagliando – che il resto d’Europa avrebbe accettato il suo «azzardo morale» a qualsiasi costo, pur di salvare l’euro: in verità, è un costo molto alto.
Wolfgang Schäuble ha preteso – sbagliando – di ottenere con quindici anni di ritardo quello che non era riuscito ad ottenere agli esordi dell’euro: una moneta unica riservata solo ai più forti e ai virtuosi. Una resa dei conti che gli ha fatto perdere l’appoggio di Parigi, non così forte e virtuosa da essere tranquilla sul futuro. La tenuta pragmatica di Mario Draghi e l’incrinatura fra Germania e Francia hanno in qualche modo facilitato l’accordo della 17a ora. A dimostrazione che il tandem fra Berlino e Parigi ha senso – per l’Europa nel suo insieme, Roma inclusa - solo quando la Francia non rimane totalmente schiacciata da una Germania troppo spesso sicura di essere nel «giusto». E ancorata, come in passato, a una visione morale dell’economia in cui è una stessa parola – schuld – a definire sia debito che colpa. Fra l’arroganza del debole e quella del forte, le istituzioni europee hanno funzionato da argine. Il presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, ha osservato che l’estenuante ricerca di un compromesso incarna proprio il «metodo europeo»: interpretazione al ribasso un po’ sconfortante, riuscita solo in extremis ad evitare lo scenario peggiore. Il principio che le decisioni monetarie siano anche politiche, non solo tecniche, ha alla fine prevalso: vedremo se reggerà alla prova dei fatti, siamo solo agli inizi.
Letta dall’interno del Vecchio Continente, la lunga battaglia di Grecia ha confermato le tesi di chi ritiene che l’unione monetaria non potrà sopravvivere a lungo senza un’Unione fiscale e senza un vero e proprio bilancio dell’Ue. Peccato che nessuno abbia chiaro come potere costruire consenso attorno a passi in avanti verso l’Unione politica - in parte contemplati nel «Rapporto» dei presidenti, già sul tavolo del Consiglio europeo. Che da una crisi di fiducia del genere debba nascere lo stimolo verso un’Unione federale può essere una conclusione razionale; ma non è certo un riflesso istintivo per cittadini europei che mancano di punti di riferimento e che in numeri crescenti (basta leggere i sondaggi di opinione) non riescono più a cogliere il valore aggiunto dell’Ue. Mentre le forze politiche a vario titolo euro-scettiche, a destra e a sinistra, alzano la voce nei Parlamenti nazionali e nel Parlamento di Strasburgo. La sfida è semplice da capire ma non lo è da risolvere: per avere un futuro, l’Ue deve cambiare (e abbastanza rapidamente); ma per potere cambiare, deve anzitutto recuperare un appoggio democratico che ha ormai perso. La lezione greca – che in realtà si può leggere come una dura e surreale lezione sulla crisi europea – mi pare questa, prima di altre.
Vista dall’esterno, la vicenda greca è stata in parte una drammatica farsa; in parte è diventata oggetto di competizione geopolitica fra i nostri alleati - gli Stati Uniti - e la Russia. Con un po’ di Cina in aggiunta. In una logica geopolitica, salvare la Grecia – Paese Nato e cerniera sensibile con l’Est, un Mediterraneo in fiamme e Balcani in crisi di ritorno – era indispensabile. Specie dopo la semi-perdita della Turchia. Se ciò fosse stato chiaro fin dall’inizio, avremmo forse evitato qualche telefonata di Barack Obama, qualche ammiccamento russo e qualche nuova dimostrazione della fragilità dell’Ue come attore internazionale. La lezione greca, su questo versante, suona così: una clamorosa «distrazione» degli europei dai problemi esterni che premono alle porte di casa, a Est come a Sud. E che da problemi esterni stanno diventando interni, sfruttando proprio la debolezza delle economie periferiche del Vecchio Continente.
In un libro di qualche tempo fa sulla globalizzazione e i suoi paradossi, Dani Rodrik parlava di un «trilemma politico» alla base dell’integrazione economica internazionale: è ormai molto difficile, per le ragioni spiegate dall’economista di Harvard, tenere insieme democrazia, sovranità nazionale e apertura economica. Tenere insieme tutti e tre i poli del «trilemma». La lunga crisi greca ne è una conferma, in salsa europea: con l’Unione economica e monetaria, la sovranità nazionale è per definizione limitata («perduta» per gli euroscettici, «condivisa» per i filo-europei) e si apre una nuova questione democratica. E’ il momento di discutere apertamente questo problema essenziale; e di fare - su questo, non altro - la battaglia vera per il domani.